De Sica nacque a Sora, nell'allora provincia di Terra di Lavoro (confluito poi, nel 1927, nella recentemente costituita provincia di Frosinone), in via Cittadella nel rione omonimo, il 7 luglio del 1901, figlio di Umberto De Sica, un impiegato della Banca d'Italia originario di Giffoni Valle Piana (in provincia di Salerno), e di Teresa Manfredi, una casalinga napoletana.[3] Nella chiesa di San Giovanni Battista, posta di fronte la casa di famiglia sorana, ricevette il battesimo con i nomi di Vittorio, Domenico, Stanislao, Gaetano, Sorano.
Il padre, oltre al proprio lavoro, era un assiduo collaboratore - con lo pseudonimo di Caside - per un mensile locale, La voce del Liri, stampato dal 1909 al 1915.[4] Vittorio aveva con il padre un rapporto molto forte (a lui, infatti, dedicherà il suo film Umberto D.). Come Vittorio ebbe a dire, la sua famiglia viveva in "tragica e aristocratica povertà".
Nel 1914 si trasferì con i familiari a Napoli, per poi, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, stabilirsi a Firenze; in seguito, avvenne il definitivo trasferimento della famiglia a Roma. A 15 anni cominciò a esibirsi come attore dilettante in piccoli spettacoli, organizzati per i militari ricoverati negli ospedali. Durante gli studi di ragioneria, grazie all'intercessione dell'amico di famiglia Edoardo Bencivenga, ottenne un piccolo ruolo (impersonava un Clémenceau giovane) in un film muto diretto da Alfredo De Antoni: Il processo Clémenceau, del 1917. Rimane però un episodio isolato, perché per tutto il corso degli anni venti il giovane De Sica si dedicò esclusivamente al teatro.
Attore teatrale
Dopo aver ottenuto il diploma di ragioniere, nel 1923 De Sica esordì in teatro, recitando come generico in Sogno d’Amore di Aleksander Kosorotov[5] con la compagnia drammatica di Tatiana Pavlova, allieva di Stanislavski, con la quale rimase per due anni, facendo anche una tournée nell’America del Sud. Passò poi al teatro leggero-sentimentale.[6] Nella primavera del 1925 era secondo attore brillante nella compagnia di Italia Almirante, celebre diva del muto. Nel 1927 fu scritturato come secondo attor giovane nella compagnia di Luigi Almirante, Sergio Tofano e Giuditta Rissone. Debuttò come "amoroso" ne Gli occhi azzurri dell'imperatore di Ferenc Molnár.[7]
Nel 1929 la compagnia si sciolse. De Sica, legato sentimentalmente a Giuditta Rissone, passò insieme a lei alla compagnia “Artisti associati”, fondata nello stesso anno da Guido Salvini. De Sica conobbe Umberto Melnati, un attore livornese con cui formerà una coppia di successo. Melnati era “attore brillante”, mentre De Sica era “primo attore”. Esordì in questo ruolo ne L’isola meravigliosa, novità di Ugo Betti, rappresentata il 3 ottobre 1930 al vecchio Teatro Manzoni di Milano.
Successivamente la compagnia mise in scena L’amore fa fare questo e altro, di Achille Campanile (debutto: il 17 ottobre 1930 al Teatro Manzoni). Le commedie non incontrarono il gradimento del pubblico milanese. Ma una sera Mario Mattoli, non ancora regista, ma impresario teatrale della Compagnia Za-Bum, notò l’alta qualità della recitazione degli attori e li scritturò in blocco per la sua nuova produzione Za-Bum n. 8.
Lo spettacolo mescolava la comicità degli attori del varietà al genere drammatico degli attori di prosa. Il successo fu immediato. Nelle riviste prodotte da Mattoli e da Luciano Ramo, come Lucciole della città (Falconi e Biancoli, 18 aprile 1931), nacquero i tormentoni e le gag che resero Melnati e De Sica celebri a livello nazionale, soprattutto la canzone Lodovico sei dolce come un fico e tanti sketch radiofonici, come il Düra minga, dura no.[8] La coppia comica De Sica-Melnati lavorò per dischi e per trasmissioni radiofoniche. Con i primi soldi guadagnati De Sica si comprò una Fiat 525.[7]
Pur affermandosi come attore famoso nei primi anni trenta, De Sica continuò a calcare la scena teatrale con impegno immutato, sfruttando anzi la notorietà del cinema per impegnarsi, dopo la fine di Za-Bum, in altre produzioni. D’inverno recitava a teatro, mentre in estate era impegnato nel cinema. L’attività teatrale proseguì con la compagnia Tofano-Rissone-De Sica, dal 1933 al 1935, e con la Rissone-De Sica-Melnati fino al 1939. Con Giuditta Rissone e Sergio Tofano, De Sica mise in scena pièce soprattutto comiche. Il cartellone, dichiaratamente boulevardier, attingeva al Barrie, a Ladislao Födor,[9] a Ivan Noé.[10] Il periodo della Tofano-Rissone-De Sica segnò anche l'inizio del lungo sodalizio con due autori italiani, che scrissero per De Sica alcuni dei loro testi più noti e furono fra gli sceneggiatori dei film da lui interpretati: Aldo De Benedetti e Gherardo Gherardi. Ricordiamo per il primo il Lohengrin (debutto: Teatro Argentina di Roma, 28 dicembre 1933), per il secondo Questi ragazzi! (debutto: Teatro Quirino, 28 maggio 1934).
Nel triennio 1936-39 fu la volta della compagnia De Sica-Rissone-Melnati, diretta dallo stesso De Sica: il repertorio era sempre votato all’intrattenimento. Aldo De Benedetti scrisse appositamente per i tre attori Due dozzine di rose scarlatte, che andò in scena al Teatro Argentina l'11 marzo 1936[11] ed è considerata la più celebre commedia degli anni trenta, apprezzata sia in Italia che all'estero.[12]
Rotto il felice sodalizio con Umberto Melnati, nel 1940 De Sica e Giuditta Rissone, marito e moglie dal 7 luglio 1937, si unirono a Sergio Tofano per formare una nuova compagnia. De Sica era il terzo nome in ditta e lasciò la responsabilità della gestione a Tofano. Fino al 1942 la compagnia allestì una nutrita serie di drammi di rilievo: La scuola della maldicenza, opera del 1777 dell'irlandese Richard Brinsley Sheridan (Teatro Nuovo di Milano, 11 febbraio 1941, parte di Charles con finale canoro); Ma non è una cosa seria di Pirandello (marzo 1941, parte di Memmo Speranza); Il paese delle vacanze di Ugo Betti (20 febbraio 1942); Liolà, recitato in lingua, (Teatro Nuovo, 8 giugno 1942).
Ebbe un proficuo rapporto con Alberto Sordi, che tentò di lanciare nel 1951 producendo e dirigendo anonimamente Mamma mia, che impressione! e con il quale recitò in diversi film, tra i quali sono da menzionare Il conte Max, Il moralista e Il vigile. Il risultato più alto del connubio è probabilmente in un film diretto dallo stesso Sordi: Un italiano in America del 1967, dove interpretò un incisivo e malinconico ruolo di uno sfaccendato squattrinato emigrato negli Stati Uniti d'America, che sfrutta la partecipazione a una trasmissione televisiva per incontrare il figlio che non vedeva da tempo e al quale fa credere di essere ricco.
Nel 1911, a causa di un'epidemia di colera, le autorità gli avevano proibito di mangiare i fichi: pur di procurarsene, anche perché costavano poco, la sua cara madre si faceva aiutare dal piccolo Vittorio durante gli acquisti dagli ambulanti. L'attore in questo caso fungeva da palo per dare l'allarme all'arrivo della legge. In un'occasione, quando si profilarono due carabinieri, lui intonava Torna a Surriento. Ai militi piacque e chiesero di continuare; De Sica si trovò così a interpretare tutto il repertorio napoletano a lui noto. Negli anni seguenti, divenuto attore, incise numerose versioni dei classici napoletani.[14]
Ernesto Murolo lo bocciò, esclamando durante una sua esibizione "Tene sulo nu filo 'e voce". Inoltre, alludendo alla sua magrezza, aggiunse: "Pare nu miezo tisico". Lo apprezzò, invece, Enzo Lucio Murolo, l'inventore della sceneggiata. Disse Dino Falconi, autore di riviste: "Nessuno meglio di me può assicurare che Vittorio De Sica cantava come soltanto un napoletano sa cantare". Nella maturità, incise Signorinella di Libero Bovio. Fece in TV a Studio Uno un duetto con Mina in Amarsi quando piove. Per la collana Recital dedicò album a Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo e Michele Galdieri, in cui interpretava canzoni e recitava poesie.
Nel 1968 partecipò come autore a un Festival di Napoli. La sua Dimme che tuorne a mme!, musicata dal primo figlio Manuel, nel Festival di Napoli 1968 fu interpretata da Nunzio Gallo e da Luciano Tomei, ma non entrò in finale. Più volte progettò di prendere casa a Posillipo: De Sica sosteneva che "nu cafone 'e fora" (come lui si definiva) può amare Napoli più di un napoletano. Incise l'ultimo album nel 1971: De Sica anni Trenta, realizzato con gli arrangiamenti del figlio Manuel. La sua interpretazione più nota, tuttavia, resta quella di Munasterio 'e santa Chiara.
In televisione
Molto attivo anche sul piccolo schermo, sebbene non lo amasse molto, partecipò a diverse trasmissioni statunitensi e italiane di intrattenimento leggero come Il Musichiere (1960), Studio Uno (1965), Colonna Sonora (1966), Sabato Sera con Corrado (1967), Delia Scala Story (1968), Stasera Gina Lollobrigida (1969), Canzonissima con Corrado e Raffaella Carrà (1970-71) e nuovamente in quella del 1972/1973 con Pippo Baudo e Loretta Goggi e Adesso musica (1972), nonché nel ruolo del giudice chiamato a processare il burattino Pinocchio nello sceneggiato Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini (1972). Nel 1971 diresse due documentari, e inoltre molti uomini di cultura gli dedicarono diversi documentari onorifici.
Vita privata
Era nota la sua grande passione per il gioco, per la quale si trovò a volte a perdere somme anche ingenti e che, probabilmente, spiega la sua partecipazione a qualche film non alla sua altezza;[15] nell'immediato dopoguerra fu assiduo frequentatore di roulette nel Casinò Municipale del Castello di Rivoli.[16] Quella per il gioco fu una passione che non nascose mai e che anzi riportò, con grande autoironia, in diversi suoi personaggi cinematografici, come in Il conte Max, Un italiano in America e L'oro di Napoli.
Il 10 aprile del 1937, nella chiesa di Borgo San Pietro ad Asti, De Sica si sposò con l'attrice torinese Giuditta Rissone, che aveva conosciuto dieci anni prima e dalla quale ebbe la figlia Emilia, detta Emi (1938-2021).[17] Nel 1942, sul set del film Un garibaldino al convento, conobbe l'attrice catalanaMaría Mercader, con la quale andò in seguito a convivere. Dopo il divorzio dalla Rissone, ottenuto in Messico nel 1954, si sposò con l'attrice catalana nel 1959 sempre in Messico, ma in Italia l'unione fu ritenuta "nulla" perché non riconosciuta dalla legge italiana; allora De Sica nel 1968 ottenne la cittadinanza francese e si sposò con María Mercader a Parigi. Da lei aveva nel frattempo avuto due figli: Manuel (1949-2014),[18] musicista, e Christian (1951), che ha seguito le sue orme come attore e regista. Anche due nipoti sono registi: Andrea (1981), figlio di Manuel e sceneggiatore, e Brando (1983), figlio di Christian, che è anche attore.
Seppur divorziato, Vittorio De Sica non seppe rinunciare alla sua prima famiglia. Avviò così un doppio ménage, con doppi pranzi nelle feste e un conseguente logoramento: si racconta che alla Vigilia di Natale e all'ultimo dell'anno regolasse l'orologio avanti di due ore in casa della Mercader, per poter fare il brindisi di mezzanotte con tutte e due le famiglie. La prima moglie accettò di mantenere una sorta di matrimonio apparente, pur di non togliere alla figlia la figura paterna. A questi aspetti della sua vita è in parte ispirato il film L'immorale, diretto da Pietro Germi nel 1967 e interpretato da Ugo Tognazzi.
De Sica sosteneva che nu cafone 'e fora, come lui si definiva, può amare Napoli più di un napoletano e più volte pensò di prendere casa a Posillipo. Era amante dell'Isola d'Ischia e non perdeva mai occasione di trascorrere le vacanze lì; infatti, affermava che l'unico motivo per cui non si trasferiva definitivamente nell'isola del golfo di Napoli era che a Ischia non vi era alcun casinò.[14]
^ Roger Ebert, The Bicycle Thief / Bicycle Thieves (1949), su rogerebert.suntimes.com, Chicago Sun-Times. URL consultato l'8 settembre 2011 (archiviato dall'url originale il 7 dicembre 2019).
^Nello specifico la frase fu: "Si vergogni! Si vergogni di fare film come questi. Che diranno di noi all'estero? I panni sporchi si lavano in casa" come riportato in: Franco Pecori, pp. 53, in Vittorio De Sica, Firenze, La nuova Italia, 1980.
^abc G. De Santi, Vittorio De Sica, Il castoro, 2003.
^In occasione della presentazione del restauro di Ladri di biciclette, realizzato nel 2008 grazie alla sponsorizzazione del Casinò di Venezia, il figlio Christian ha dichiarato: «Proprio il Casinò che finanzia il restauro di un film di papà […] Lui era un giocatore incallito, ha lasciato tantissimi soldi nelle case da gioco di mezzo mondo. In un certo senso, con questo restauro, è stato in parte risarcito. Sono certo che, da lassù, mio padre, considerato dallo scrittore Mario Puzo uno dei tre più accaniti giocatori del Casinò di Las Vegas insieme a un cinese e a un indiano, sarà contento di sapere che una casa da gioco paga per salvare un suo film» (La Stampa, 24/8/2008).
^ F. Jaselli Meazza - M. Pedrazzini, Il mio nome è Giuseppe Meazza, Milano, ExCogita Editore, 2010, p. 108, dove è riportata un'edizione della Domenica Sportiva del 13 novembre 1932, contenente un'intervista a Vittorio De Sica, dal titolo "Alla scoperta di Meazza. "Sono un tifoso?" si chiede Vittorio De Sica"..
Remo d'Acierno, "De Sica, Gill e O Zampugnaro nnammurato", Edizioni La Collina (AV) 2007.
Gualtiero De Santi, Vittorio De Sica, Il Castoro Cinema n. 213, Editrice Il Castoro, 2008, ISBN 978-88-8033-259-6.
Emi De Sica, Lettere dal set, edizioni SugarCo.
Manuel De Sica, La porta del cielo - Memorie 1901-1952, edizioni Avagliano, 2005.
Giancarlo Governi, Parlami d'amore Mariù. La vita e l'opera di Vittorio De Sica, edizioni Nuova Eri, 1991.
Luigi Gulia, Michele Ferri, Luciano Lilla (a cura di), Vittorio De Sica. Immagini della vita, Scritti di Maria De Sica, Luigi Gulia, Emi De Sica, Orio Caldiron, Angelo Arpa e una cronologia di Michele Ferri, Sora, Centro di Studi Sorani "V. Patriarca", 1984.
Luigi Gulia, Cesare Baronio e Vittorio De Sica: due sorani nella "chiesa dei poveri" ad thermas Antoninianas, in La Ciociaria tra scrittori e cineasti, a cura di Franco Zangrilli, Pesaro, Metauro Edizioni S.r.l., 2004, pp. 193–205.
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