Consegue la maturità classica nel 1937 presso l'Istituto Leone XIII dei Padri Gesuiti. Nel 1941 si laurea in Lettere Moderne presso l'Università Cattolica di Milano, discutendo con Mario Apollonio una tesi sulla letteratura infantile, pubblicata l'anno successivo con il titolo Limiti e ragioni della letteratura infantile, (Firenze, Barbera, 1942) poi completamente rivista e ampliata in La letteratura infantile (Fabbri editori, 1958). L'opera fu salutata nel 1942 con una nota di consenso da Benedetto Croce[1], cui non sfuggì la «buona analisi dell'anima dei fanciulli» e che definì l'autore «acuto e accurato».
Il giovane Santucci inizia ad insegnare nelle scuole superiori, prima a Gorizia, poi a Milano, facendo anche da assistente di Apollonio all'Università Cattolica[2]. Nel 1944 a causa della sua opposizione al regime fascista, deve espatriare in Svizzera, dove rimane per alcuni mesi. Rientrato a Milano, partecipa attivamente alla Resistenza, prima con i partigiani della Val Cannobina, in seguito collaborando a Milano alla fondazione del giornale clandestino L'Uomo, accanto a David Maria Turoldo, Dino Del Bo, Camillo De Piaz, Gustavo Bontadini, Angelo Merlin, Angelo Romanò.
Nel 1950 si unisce in matrimonio con Bice Cima. Dalla loro felice unione nascono i quattro figli Michele, Agnese, Raimondo ed Emma.
Dal 1951 al 1955 entra a fare parte dell'organico del Coro A.N.A. di Milano sotto la direzione di Vincenzo Carniel con il quale nel 1954 collabora per la stesura delle parole del canto "La leggenda della Grigna" poi donato al Coro della SAT di Trento che con questo canto vinse il concorso "Stella alpina d'oro" per la migliore esecuzione e per la più significativa composizione corale d'autore.[4]
Gli inizi dell'attività letteraria
A partire dalla pubblicazione della raccolta di racconti Lo zio prete (Milano, Mondadori, 1951) Santucci si vedrà imporre l'etichetta di “scrittore cattolico”, da lui accolta non senza resistenze, preferendo modificarla in “scrittore cattolico del dissenso”. A questo proposito, in una tarda intervista del 1972 lo scrittore espliciterà la sua posizione:
«L’etichetta di scrittore cattolico, se incollata addosso sbrigativamente e puntigliosamente appunto come etichetta (ed è da tempo il mio caso), significa ben poco, serve ad alimentare confusione, pigrizia, archiviamento di personalità e problemi. […] In effetti non mi sento più interessato a Cristo come cattolico di anagrafe di quanto lo fossero i protestanti Martin Luther King o Albert Schweitzer; sono solo uno scrittore che vive oggi, coi suoi spasimi e alternative sempre più tese, una sua cristomachia. Fuori della foresta in cui mi arrabatto non posso sapere se troverò Cristo e non so quale Cristo troverò: certo non sarà un Cristo riduttivamente cattolico.»
(Non sparate sui narcisi, intervista a cura di P. Bianucci, «Gazzetta del Popolo», 25 marzo 1972)
E ancora difese tale libera posizione in un'intervista di qualche mese successiva:
«Ci sono stati due modi di accogliere questa mia qualificazione: un grande favore, un compiacimento e entusiasmo da parte dell'ala cattolica, talora debbo dire con qualche ingenua goffaggine; dall’altro versante, quello laico, sono stato naturalmente (direi legittimamente) ripudiato, squalificato e anche deriso (sappiamo che il bigottismo dei laici non è inferiore a quello dei cattolici…).»
(Quesiti a Santucci, intervista a cura di C. Toscani, «Il Ragguaglio librario», settembre 1972)
Tornando agli anni Cinquanta, questi furono un periodo di intensa produzione letteraria: nel 1953 Santucci collaborò con Angelo Romanò per la stesura di Chi è costui che viene? (Milano, Mondadori), nel 1954 la fitta attività saggistico-culturale si manifestò nella stesura de L'imperfetta letizia (Firenze, Vallecchi), mentre per la pubblicazione de Il libro dell'amicizia (Milano, Mondadori, 1960) Santucci fu affiancato da Angelo Merlin.
La notorietà
Nel 1962 abbandona l'insegnamento per dedicarsi a tempo pieno all'attività di scrittore. Nel 1963, l'anno in cui viene pubblicato per Mondadori Il velocifero, muore la madre Emma, provocandogli un grande dolore.
Nel 1967, dopo essere stato finalista allo stesso premio nel 1964 con Il velocifero, vince il Premio Campiello con Orfeo in paradiso (Milano, Mondadori, 1967).[5]
La lunga e prolifica carriera di Santucci è stata sorretta dall'attenzione e dal prevalente consenso della critica, che non mancò neanche ai suoi testi teatrali. Già nel 1956 con L'angelo di Caino, dramma rappresentato ad Assisi da Giorgio Albertazzi e Gian Maria Volonté in occasione del Premio Pro Civitate Christiana, ottenne molto successo, ma è con l'opera in dialetto milanese Noblesse Oblige (Milano 1966, poi rappresentata nel 1993 da Gianrico Tedeschi) e con Ramon mercedario (Premio Istituto del dramma popolare di S. Miniato, 1981) che afferma soprattutto le sue doti di drammaturgo.
L'affacciarsi degli anni Sessanta fa emergere un nuovo aspetto dello scrittore: attraverso il percorso dei figli segue la stagione delle contestazioni giovanili con fervida immedesimazione, la stessa che lo guida nella stesura di Non sparate sui narcisi (Milano, Mondadori, 1971), in chiave fantastico-allegorica, tipica nell'autore.
Agli ultimi anni Novanta risalgono molte opere per bambini e ragazzi tra cui Una strana notte di Natale (Casale Monferrato, Piemme, 1992), Tra pirati e delfini (Milano, Bompiani, 1996), Le frittate di Clorinda (Firenze, Giunti, 1996).
Morte
Il 23 maggio 1999 muore a Milano, poco dopo l'uscita in libreria della sua ultima opera, Éschaton. Traguardo di un'anima (Novara, Interlinea, 1999).
Quello stesso anno Santucci era riuscito a registrare su nastro una sorta di testamento spirituale e di bilancio della propria esistenza ed esperienza a beneficio dei figli[8], spronandoli ad affrontare la vita con generosità e raccontando di sé per un'ultima volta:
«Se dovessi sintetizzare in una formula, in un’espressione il mio essere stato scrittore, credo che sarebbe questa: che scrivo per lodare. […] Io ho lodato, ho cercato di applaudire, di risuscitare nella lode, quante più cose ho potuto. […] La lode, sì, come messaggio, come linguaggio, se non per salvare il mondo (per guarirlo ci vuole altro!), per aiutarlo, perché recuperi una qualche stima, una qualche fiducia in se stesso; perché esca dall’autodisprezzo, dalla disperazione, e ritrovi l’amabilità.[…]
Perché senza un certo entusiasmo nei nostri confronti è poi quasi impossibile amare gli altri, si va a rischio al contrario d’infiltrare negli altri i nostri squilibri, il nostro scetticismo o addirittura pessimismo sull’umanità. […] E tutto quello che ho avuto l’ho davvero goduto, grazie penso alla mia natura di poeta, l’ho goduto (questo è molto importante) con consapevolezza.»
^Per la trascrizione integrale del messaggio registrato per i figli si rimanda a L. Santucci, Autoritratto, a cura di G. Badilini, Milano, Ancora, 2004, pp. 259-265.