Il padre apparteneva all'allora nutrita minoranza italiana di Spalato. La fortuna economica della famiglia Smacchia Bettiza risaliva all'epoca napoleonica, quando il governo francese delle province illiriche appaltò proprio all'impresa del bisnonno dello scrittore la costruzione della strada carrabile da Spalato a Ragusa. Ancora negli anni venti la fabbrica cementifera Gilardi e Bettiza[3] era la più importante industria della Dalmazia. La madre era di origini montenegrine e proveniva dall'isola di Brazza, a poche miglia da Spalato. Negli anni venti, come consentito dal trattato di Rapallo, la famiglia aveva optato per la cittadinanza italiana, pur risiedendo in territorio jugoslavo. Dopo la seconda guerra mondiale l'industria fu nazionalizzata dal nuovo governo comunista e la famiglia Bettiza si trasferì in Italia:
«La mia famiglia faceva parte della aristocrazia mercantile già dai tempi di Venezia. Ma il padre del mio bisnonno sfruttò le grandi opportunità del periodo napoleonico, quando il duca di Ragusa promosse l'industrializzazione della zona. Ho ancora gli appunti di mio padre, un po' joyciani dal punto di vista stilistico, tra italiano, dialetto veneto e altre lingue, e le memorie in serbo-croato del fratello di mia mamma, che fu un celebrato cantante d'opera. La prima lingua è stata il serbo-croato di mia mamma. Ma all'età di cinque, sei anni è intervenuto il papà, che pure parlava benissimo il serbo croato, col suo dialetto veneto. A 11 anni ero già a Zara, per il ginnasio italiano. Insomma, nasco quasi trilingue, perché non bisogna dimenticare il tedesco. Per me era normale vivere così. Solo quando sono diventato un esule ho capito che ero cresciuto in un posto molto complicato, e mi sono reso conto che era un ginepraio. Per me l'infanzia e l'adolescenza in Dalmazia furono un'epoca d'oro. Vivevo in una famiglia agiata, e in un ambiente naturale bellissimo. Un paradiso perduto. Potevo diventare cittadino italiano, jugoslavo o austriaco. L'esilio ha fatto di me un europeo convinto[4].»
Le vicende familiari dei Bettiza e l'universo della Dalmazia nel XIX e primo XX secolo sono narrate da Bettiza in Esilio (Mondadori, 1996), in cui scrive di se stesso:
«Segnato da iniziali influssi serbi nell'infanzia, poi italiani nella pubertà, quindi croati nell'adolescenza, ai quali dovevano aggiungersi più tardi innesti germanici e russi, ho lasciato concrescere poco per volta in me multiformi radici culturali europee; non ho mai dato molto spazio alla crescita di una specifica radice nazionale[5][6].»
L'arrivo in Italia e i primi lavori
Con la guerra e l'occupazione jugoslava, il padre perse tutto[7]. Giunto in Italia su «un peschereccio pugliese di fortuna, pericolosamente sovraccaricato di ebrei ungheresi, slovacchi, polacchi, romeni, fuggiti dall'Est»[8], il giovane Bettiza fuggì da un campo profughi in Puglia e si fermò a Roma. Si iscrisse all'Accademia di belle arti della capitale con l'intenzione di divenire pittore, ma non vi trovò la sua strada e visse per qualche anno di lavoretti precari[5], tra cui contrabbandiere, giocatore di poker e venditore di libri a rate[9].
Corrispondente estero per La Stampa e il Corriere della Sera
Successivamente salì a Milano, dove aderì al PCI. L'esperienza fu così negativa che Bettiza se ne distaccò in poco tempo per passare a posizioni liberali e anticomuniste[5].
Poliglotta (parlava veneto, italiano, serbocroato, russo, francese e tedesco), di modi raffinati e di sconfinata passione per le letture e le discussioni[10], nel 1953 è assunto dal settimanale Epoca e nel 1957 passa al quotidiano La Stampa, per cui è corrispondente da Vienna e poi da Mosca, da dove è il primo corrispondente occidentale a scrivere non solo che i sovietici avevano rotto con i cinesi ma anche che quella frattura avrebbe aiutato gli Stati Uniti a vincere la guerra fredda[11]. Darà di Chruščëv un giudizio controcorrente: «Era un contadino ucraino che giocò il sopravvalutato Kennedy. Gli eresse il muro di Berlino sotto il naso ed evitò la guerra nucleare, nonostante Castro la sollecitasse: era pronto a vedere distrutta Cuba pur di distruggere l'America»[11]. Resterà a Mosca fino a quando sarà licenziato dal direttore Giulio De Benedetti per troppo attivismo nel 1964[9][12].
Bettiza passò quindi al Corriere della Sera per il quale lavora, sempre come corrispondente dall'estero, per dieci anni, fino ad andarsene in polemica per la svolta a sinistra impressa da Piero Ottone[9].
Riguardo ai suoi anni al Corriere, Bettiza si espresse senza mezzi termini su Giulia Maria Crespi, la comproprietaria del giornale:
«Presumeva di poter fare e disfare le direzioni e le strategie politiche del quotidiano di cui non capiva nulla: assolutamente nulla. [L'entourage di persone fidate di cui si circondava], col suo sinistrismo festaiolo, ha avuto una parte di responsabilità nella diffusione degli impulsi autodistruttivi che dovevano percorrere la società italiana dopo la vacanza utopica del 1968[13].»
Anche i rapporti con Piero Ottone furono pessimi, sia sul piano umano che su quello professionale. Dal punto di vista personale descrisse il direttore del Corriere come un uomo «doppio, sfuggente, infido, privo di scrupoli»[13], mentre su quello professionale «non v'era alcun nesso fra la lezione anglosassone e il giornale di denuncia, quasi scandalistico, che Ottone, con innegabile inventiva, confezionava quotidianamente»[13]. Bettiza raccontò poi l'esperienza di redazione in maniera abrasiva nel libro di memorie Via Solferino.
L'avvio della produzione letteraria negli anni sessanta
Negli anni sessanta prende forma anche la sua produzione letteraria, narrativa (a partire da Il fantasma di Trieste, Longanesi, 1958) e saggistica. La sua attività è incentrata soprattutto sullo studio dei paesi mitteleuropei e sulla critica all'ideologia comunista e ai regimi del socialismo reale. Nel 1970 vince il premio letterario isola d'Elba con il libro, edito da Longanesi, Diario di Mosca. Il suo lavoro di maggior impegno teorico è Il mistero di Lenin, antropologia dell'homo sovieticus a partire dalla figura del fondatore del bolscevismo, che Bettiza definisce spregiativamente «un ominide meccanico, duro, opaco, capace di esistere unicamente e interamente nel presente socialista, privo di memoria, di dubbi, di rimorsi». Più tardi si dimostra particolarmente scettico rispetto alle esperienze riformatrici di Michail Gorbačëv[5].
Gli anni con Montanelli al Giornale
Nel 1974 Indro Montanelli chiese a Bettiza di aiutarlo nella fondazione di un quotidiano indipendente. Bettiza accettò e uscì da via Solferino. Secondo Bettiza, Giulia Maria Crespi e il direttore Piero Ottone volevano fare del Corriere «un quotidiano d'assalto tipo "manifesto" o "Lotta Continua"»[13]. Il comitato di redazione, «giacobinizzandosi, tendeva sempre più a diventare un comitato di salute pubblica»[13].
Bettiza fondò con Indro Montanelliil Giornale nuovo, di cui fu condirettore vicario dal 1974 al 1983. Il sodalizio durò quasi dieci anni. Si sciolse a causa di alcuni contrasti sulla linea politica: Bettiza era sostenitore convinto del patto lib-lab, l'accordo tra liberali di Valerio Zanone e socialisti craxiani, che apprezzava per la distanza dai comunisti. Montanelli invece era molto più scettico nei confronti del leader socialista e non credeva ad un socialismo liberaleggiante. il pretesto scatenante fu il rifiuto di Montanelli di pubblicare un articolo filocraxiano di Francesco D'Amato (allora caporedattore della sede romana del Giornale), pezzo che era già stato approvato da Bettiza[14].
Dopo reciproca rottura, Bettiza e Montanelli non si parlarono per anni, fino al 1996, quando di Bettiza uscirà Esilio: Montanelli, in occasione dell'uscita del nuovo libro dell'antico amico, disse che fosse giunto «il momento di riconoscere che Enzo è un grande scrittore mitteleuropeo»[15]; e Bettiza gli telefonò per ringraziarlo. Seguì un pranzo di riconciliazione. Successivamente all'uscita del libro, Montanelli dichiarò: «Fu un litigio a binario unico, un equivoco, nel senso che fu lui a litigare con me. Io con lui, mai. [...] La sua partenza io l'ho vissuta come un lutto»[16].
Senatore ed eurodeputato con liberali e socialisti
Quando è ancora al Giornale nuovo entrò in politica. Fu eletto senatore della Repubblica dal 1976 al 1979 per il PLI, all'interno dell'alleanza laica (PLI-PRI-PSDI), e prese parte all'elezione di Sandro Pertini al Quirinale, su cui poi scrive il Diario di un grande elettore. Dal 1979 al 1989 rappresentò i liberali al Parlamento europeo, per poi essere candidato ed eletto eurodeputato nel 1989 direttamente nelle liste del PSI.
Negli anni novanta e duemila Bettiza si dedicò completamente alla scrittura, con vari testi, dedicati alle vicende dell'Europa orientale e alla fine del blocco sovietico. Tra le sue opere letterarie si ricordano Esilio (vincitore del Premio Campiello nel 1996),[18] memoria dell'infanzia e adolescenza nella natia Dalmazia dagli anni venti alla Seconda guerra mondiale, e il romanzo I fantasmi di Mosca (1993), riflessione sul totalitarismo negli anni delle purghe staliniane, considerato il più lungo romanzo mai scritto in lingua italiana. Era convinto che il XX secolo non fosse stato per nulla breve, ma al contrario «lungo, lunghissimo»[5].
Nel 1997, in seguito alle dimissioni di Vittorio Feltri, Silvio Berlusconi gli offrì la direzione del Giornale, ma Bettiza rifiutò: «Belpietro mi spiegò che lui non sarebbe stato il mio vice ma direttore come me, sia pure non responsabile. A me le querele, a lui il potere, per conto di Berlusconi. Ovviamente, rinunciai. Non avrei mai potuto fare un foglio sotto padrone»[4]. Dopo la rinuncia di Bettiza la direzione del quotidiano fu affidata a Mario Cervi[19].
Bettiza fu tra i pochi intellettuali e giornalisti a offrire sostegno politico alla Lega Nord, che nel 2010 rivelò di votare affermando che «discende dal Lombardo-Veneto asburgico. Gli antenati di Bossi sono Maria Teresa, Giuseppe II, il lato umano di Radetzky. Il suo antecedente è la buona amministrazione austriaca»[20]. Secondo Ugo Magri «conservatore Bettiza è stato sempre, ma di un'intelligenza rara»[9].
La nuova cultura tedesca. [Adorno, Augstein, Bloch, Grass, Enzensberger, Johnson, Mayer. L'ultima grande inchiesta sulla Germania], Milano, Longanesi, 1965.
L'altra Europa. Fisiologia del revisionismo nei paesi dell'Est, Firenze, Vallecchi, 1966.
Mito e realtà di Trieste, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1966.
L'altra Germania. [La prima inchiesta completa in Europa sulla Repubblica di Ulbricht], Milano, Longanesi, 1968.
Lib/Lab. Le prospettive del rapporto tra liberali e socialisti in Italia e in Europa, con Ugo Intini, Milano, SugarCo, 1980.
Il mistero di Lenin. Per un'antropologia dell'homo bolscevicus, note a cura di Dario Staffa, Milano, Rizzoli, 1982; con un nuovo saggio introduttivo Perestrojka o Glasnost, Milano, BUR, 1988. ISBN 88-17-16676-6.
Via Solferino. La vita del "Corriere della Sera" dal 1964 al 1974, Milano, Rizzoli, 1982.
Il diario di Mosca. 1961-1962. [Una partecipazione dall'interno, un'immedesimazione avventurosa e personale con il fenomeno Russia], Milano, Longanesi, 1970.
^ab Alberto Mazzuca, Penne al vetriolo, Bologna, Minerva, 2017, p. 256.
^Così Bettiza racconta come andarono le cose: aveva capito che De Benedetti lo avrebbe voluto in Russia per sempre. Quando lo capì, si recò da Mosca a Torino direttamente nell’ufficio del direttore per discutere le sue dimissioni. Il direttore, innervosito dal suo forte temperamento, lo licenziò in tronco. Vedi Enzo Bettiza, Via Solferino. La vita del "Corriere della Sera" dal 1964 al 1974 Rizzoli editore, 1982.
^abcde Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, Montanelli l'anarchico borghese. La seconda vita 1958-2001, Torino, Einaudi, 2009.
^Paolo Di Paolo, Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era, Rizzoli, Milano 2014, pag. 83.
^ Dario Fertilio, Caso Bettiza, il lungo sonno della critica, in Corriere della Sera, 1º ottobre 1996. URL consultato il 1º agosto 2017 (archiviato dall'url originale l'8 novembre 2015).
^Cervi nuovo direttore del "Giornale", in Corriere della Sera, 6 dicembre 1997. URL consultato il 17 novembre 2015 (archiviato dall'url originale il 23 ottobre 2015).