Le campagne siriano-mesopotamiche di Sapore II si svilupparono nel corso di trent'anni durante le guerre romano-sasanidi (224-363). La guerra iniziò nel 334/335 con una prima offensiva persiana di Sapore II contro le armate romane degli allora Cesari, Costanzo II e Annibaliano. L'obbiettivo era l'occupazione delle province romane orientali. A questa prima fase ne seguirono altre in un susseguirsi di "guerre di posizione" fino alla definitiva campagna sasanide di Giuliano che portò i confini dei due grandi Imperi a stabilizzarsi per oltre cinquant'anni (fino al 421).
Appena ottenuto il potere, Diocleziano nominò come cesare per l'occidente un valente ufficiale, Massimiano, facendone il proprio successore designato, e quindi lo elevò al rango di augusto l'anno successivo (nel 286), formando così una diarchia in cui i due imperatori si dividevano su base geografica il governo dell'impero e la responsabilità della difesa delle frontiere e della lotta contro gli usurpatori.
Data la crescente difficoltà a contenere le numerose rivolte all'interno dell'impero e lungo i confini settentrionali ed orientali, nel 293 si procedette a un'ulteriore divisione territoriale, al fine di facilitare le operazioni militari: Diocleziano nominò come suo cesare per l'oriente Galerio, mentre Massimiano fece lo stesso con Costanzo Cloro per l'occidente.
Dalle affermazioni di Eutropio risulterebbe che una nuova guerra tra Roma e la Persia iniziò già nel 293:
(Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, 9, 22.)
Ma è solo nel 296 che il cesare Galerio, fu chiamato da Diocleziano (alle prese con una rivolta in Egitto) per intraprendere una campagna militare contro Narsete, sovrano sasanide asceso al trono tre anni prima e che aveva invaso la provincia romana di Siria. L'esercito romano, una volta passato l'Eufrate con forze insufficienti, andò incontro ad una cocente sconfitta presso Nicephorium Callinicum,[2] a seguito della quale Roma perse la provincia di Mesopotamia.[3] Tuttavia, nel 297, avanzando attraverso le montagne dell'Armenia, ottenne una vittoria decisiva sul re sasanide Narsete, ricavandone un enorme bottino, che comprendeva l'harem di Narsete.
(Eutropio, Breviarium historiae romanae, 9, 25.)
Approfittando del vantaggio, prese la città di Ctesifonte, costringendo Narsete alla pace l'anno successivo. La Mesopotamia ritornò sotto il controllo romano, l'Armenia fu riconosciuta protettorato romano, mentre a Nisibi furono accentrate le vie carovaniere dei commerci con l'Estremo Oriente (Cina e India). Con il controllo di alcuni territori ad est del fiume Tigri, fu raggiunta la massima espansione dell'impero verso est (298).[4] Galerio celebrerà in seguito la propria vittoria erigendo l'arco di Galerio a Tessalonica anche se sembra non abbia accolto favorevolmente il trattato di pace, poiché avrebbe desiderato avanzare ulteriormente in territorio persiano.[5]
Il trattato di pace, che durò, tutto sommato, quasi 40 anni, venne accettato (tranne il primo punto) e Diocleziano celebrò il suo trionfo in occasione del XX anniversario dall'ascesa al trono (nel 304):
(Edward Gibbon, Declino e caduta dell'Impero romano, pp. 148-149)
La sconfitta dei Sasanidi ad opera di Diocleziano e Galerio (pace del 298) aveva garantito all'Impero romano alcuni decenni di relativa pace, ed il riconoscimento del Regno d'Armenia come "stato cliente". Ma i Persiani, secondo Libanio, pur dimostrandosi favorevoli alla pace agli occhi dei Romani, si prepararono in silenzio e con grande energia alla guerra nel corso dei quarant'anni successivi:[6]
(Libanio, Orationes, LIX, 63-70.)
Non conosciamo con precisione quante e quali furono le armate messe in campo da parte dei Sasanidi. Cassio Dione Cocceiano ci aveva raccontato un secolo prima che, si trattava di grosse armate, pronta a terrorizzare non solo la provincia romana di Mesopotamia, ma anche quella di Siria, ad ovest dell'Eufrate.[7] Ciò potrebbe essere stato vero anche per le campagne del decennio successivo.
Ciò che conosciamo di questo esercito è che non era permanente come quello romano, con soldati di professione pagati regolarmente per il loro mestiere. Vi era solo un'eventuale divisione del bottino finale.[8] Ci troviamo piuttosto di fronte ad un sistema simile a quello feudale, dove per ogni campagna era necessario assemblare un esercito di volta in volta, composto da nobili a capo dei loro "clan", sottoposti poi sotto il comando di un principe della casa reale. Non c'erano perciò ufficiali esperti d'armi che prestassero servizio in modo continuo e neppure un sistema di reclutamento durevole, poiché non vi erano unità militari permanenti, sebbene molti fossero i nobili a disposizione dell'esercito sasanide. Per questi motivi, spesso ingaggiavano armate mercenarie.[8] Usavano soprattutto l'arco ed il cavallo in guerra, diversamente dai Romani che prediligevano la fanteria, tanto che i Sasanidi si dice crescessero fin dall'infanzia, cavalcando e tirando con le frecce, vivendo costantemente per la guerra e la caccia.[9]
Vi è da aggiungere però che, a differenza dei Parti arsacidi, cercarono di mantenere sotto le armi per più anni i loro contingenti, nel corso di importanti campagne militari, velocizzando il reclutamento delle loro armate, oltre a meglio assimilare le tecniche di assedio dei loro avversari romani, mai veramente apprese dai loro predecessori.[10]
Sappiamo invece che per i Romani le forze messe in capo erano rappresentate da legioni e truppe ausiliarie disposte lungo il limes orientale. Alla morte di Costantino I su 63 legioni dislocate lungo le frontiere imperiali, la sola parte orientale, governata dall'Augusto Costanzo II e dal Cesare Annibaliano, disponeva certamente di 24 legioni, 2 vexillationes legionarie (della V Macedonica e XIII Gemina),[11] oltre probabilmente ad altre 4 legioni di nuovissima costituzione (I Flavia Constantia, II Flavia Constantia, II Flavia Virtutis e III Flavia Salutis) per un totale di 28 legioni su 67 (pari al 42% dell'intera forza legionaria schierata lungo le frontiere imperiali).
Ciò darebbe luogo ad una forza complessiva e distribuita lungo l'intero fronte orientale (secondo i conteggi di Agazia), pari a 270 000 armati, che corrisponderebbero al 40/42% dei 645 000 armati totali ipotizzati dallo storico antico,[12] di cui la metà era costituita da legionari, la restante da ausiliari.[13]
La stima di Agazia-Jones è stata tuttavia messa in dubbio da studi più recenti, che sostengono che la cifra di Agazia, ammettendo che sia valida, potrebbe rappresentare la forza ufficiale, ma non quella reale, dell'esercito dell'epoca di Costantino: nella realtà dei fatti, le unità del Tardo-Impero erano costituite da meno soldati di quanti ne contenessero ufficialmente, forse addirittura i due terzi in meno della cifra ufficiale.[14] Sulla base di questa considerazione, i 645 000 soldati sulla carta secondo Agazia, potrebbero essere stati non più di 400 000 ca. in realtà. Quest'ultima cifra ben si accorda con le altre cifre totali fornite dalle fonti antiche, come la stima dell'autore del VI secolo Giovanni Lido, di 389 704 effettivi[15] (escluse flotte) per l'esercito di Diocleziano. La cifra fornita da Lido è ritenuta dagli studiosi più credibile di quella di Agazia a causa della sua precisione (non è una cifra "tonda", implicando che forse fu trovata in un documento ufficiale) e per il fatto che è ascritta a un periodo di tempo specifico.[16]
Costanzo rimase ad Antiochia in modo quasi continuativo dal 337 al 350,[40] e l'esito degli scontri non ci è noto nei dettagli, anche se si suppone sia avvenuto soprattutto in Mesopotamia.[28] Sappiamo che Costanzo adottò una strategia differente rispetto a quelle adottate dai suoi predecessori: invece di scegliere l'opzione della massiccia campagna militare destinata a colpire il cuore dello stato nemico (come prevedeva di fare il padre Costantino, e come avrebbe in seguito fatto il nipote Giuliano), preferì affidarsi ad una difesa in profondità, facendo perno su tutta una serie di fortezze (frontaliere ed all'interno) al fine di contenere e sfiancare gli attacchi sasanidi. Si trattò, quindi, di una guerra di posizione difensiva, in cui furono evitate per quanto possibile le manovre in campo aperto con l'esercito al completo. Questa scelta, sebbene molto efficace e poco dispendiosa in termini di mobilitazione di truppe, non portò certo a soddisfare l'aspettativa di vittorie decisive che esisteva nel mondo romano.[41]
Le operazioni militari contro i Romani si dovettero interrompere quando i Sasanidi nel 351 furono attaccati a oriente (nell'attuale Afghanistan[53]) da alcune tribù nomadi: dopo una lunga guerra (353-358), Sapore riuscì a soggiogare le tribù, ottenendo degli alleati per la sua successiva campagna contro i Romani.
Quest'anno Costanzo ricevette la notizia che in Oriente Sapore II aveva ripreso le ostilità, in una campagna che portò alla conquista sasanide della fortezza frontaliera di Amida in ottobre (dopo settantatré giorni di assedio); l'imperatore, però, poté lasciare l'area danubiana solo dopo la caduta della città, in quanto fu impegnato contro i Limiganti.[58] Ecco come ci narra alcune fasi salienti dell'assedio di Amida tra Sasanidi e Romani Ammiano Marcellino:
(Ammiano Marcellino, Storie, XIX, 2.2-8)
(Ammiano Marcellino, Storie, XIX, 5.1.)
Nel 360 Sapore prese le fortezze orientali di Singara e Bezabde (quest'ultima assediata e conquistata malgrado la strenua difesa di tre legioni romane — II Parthica, II Armeniaca e II Flavia Virtutis[60] — e punita con la morte dei suoi abitanti), mentre l'assalto alla fortezza di Virta fallì. Costanzo, obbligato a riprendere le ostilità con i Sasanidi, richiese al cesare Giuliano alcune sue truppe, anche allo scopo di assicurarsi che non potesse progettare l'usurpazione, ma le truppe galliche si ribellarono all'idea di essere mandate in oriente e proclamarono augusto Giuliano, che aveva dato valide prove di capacità militari difendendo la Gallia da vari tentativi d'invasione: fu l'inizio di una nuova guerra civile. Costanzo decise che la guerra contro i Sasanidi aveva la precedenza sulla ribellione di Giuliano, e nella primavera del 360 iniziò la propria campagna orientale, occupando Edessa e cercando di riprendere Bezabde; l'attacco però fallì e Costanzo decise di ritirarsi a svernare ad Antiochia di Siria.[61]
Costanzo fu obbligato a lasciare la frontiera per affrontare l'usurpazione del cugino Giuliano, morendo lungo il viaggio. Il nuovo imperatore fu impegnato nella politica interna, ma nel 363 diede inizio ad una campagna militare contro i Sasanidi.
(Ammiano Marcellino, XXV, 9, 10-12.)
Con la fine della guerra del 363, Gioviano aveva rinunciato all'Armenia ed il sovrano di Persia Sapore II era determinato a sfruttare la situazione. Il monarca sasanide cominciò, infatti, a portare l'aristocrazia armena dalla propria parte, detronizzando il loro re arsacide, Arshak II, fedele alleato di Roma; contemporaneamente inviò una forza d'invasione contro il Regno di Iberia (odierna Georgia), e una seconda armata contro il figlio di Arsace III, Pap, che riuscì a scappare e a raggiungere l'Imperatore romano, Valente a Marcianopoli, dove stava conducendo una campagna contro i Goti (nel 367/368).
Valente mandò il generale Arinteo a re-imporre Pap sul trono armeno già l'estate seguente alla prima azione contro i Goti (nel 369?). Sapore reagì invadendo e devastando una seconda volta la regione. Sull'orlo di una nuova guerra, l'imperatore Valente risiedette presso Antiochia, divenuta suo quartier generale negli anni 369-370[88] e 375[89]-378.[90] Il contrattacco di Sapore in Armenia fu bloccato dai generali Traiano e Vadomario a Bagavan. Valente aveva violato il trattato del 363, difendendo con successo la propria posizione. Una tregua stipulata nell'anno della vittoria romana, garantì una pace provvisoria per cinque anni, mentre Sapore era impegnato contro un'invasione Kushan ad est.
Nel frattempo sorsero problemi con Pap, temendo che quest'ultimo potesse passare dalla parte dei Persiani, Valente lo fece mettere a morte, a Tarso, dove si era rifugiato, dal generale Traiano (374).[91] Al suo posto l'imperatore pose un altro arsacide, Varazdat, che governò sotto la reggenza dello sparapet (comandante dell'esercito armeno) Masel Mamikonean, fedele a Roma. Tutto ciò non migliorò la situazione con i Persiani, che ricominciarono a lamentarsi riguardo al trattato del 363. Nel 375, Valente si preparò per una spedizione, che però non fu mai iniziata a causa della grande rivolta in Isauria da parte di truppe stanziate in oriente. Come se non bastasse, nel 377 i Saraceni comandati dalla regina Mavia si ribellarono, devastando i territori dalla Palestina al Sinai. Anche se Valente riuscì a sedare entrambe le rivolte, gli fu impedita l'azione contro i Persiani.
Pochi anni più tardi, nel 384, il regno d'Armenia fu diviso in due regioni: quella occidentale fu posta, come protettorato, sotto l'Impero romano d'Oriente, mentre quella orientale venne affidata ai Persiani. La regione occidentale divenne provincia dell'Impero Romano con il nome di Armenia Minore, mentre la parte orientale rimase un regno indipendente, anche se solo formalmente, sotto il controllo persiano, fino al 428 quando i Sasanidi deposero il sovrano legittimo instaurando una loro dinastia.