L'annata segnò grandi novità per la squadra bianconera, destinate a ripercuotersi lungo tutta la seconda metà degli anni 1960. A sostituire Monzeglio in panchina arrivò il sudamericano Heriberto Herrera,[4] un sergente di ferro[5] che ben si era comportato nelle sue precedenti esperienze in terra iberica; tale soprannome tradiva abbastanza esplicitamente il carattere dell'uomo, severo e rigoroso, cultore dell'allenamento nonché di una rigida disciplina dentro e fuori dal campo.[6] Tutte caratteristiche che calamitarono le attenzioni della dirigenza del club, in cerca di un tecnico dai modi tenaci e inflessibili onde rivoltare uno spogliatoio[5] divenuto ormai colmo di enfants gatés.[4]
Presto ribattezzato dalla stampa come HH2 per non confonderlo col più noto franco-argentino Helenio, il paraguaiano Herrera portò alla Juventus il suo credo tattico del movimiento: un sistema di gioco che, in controtendenza rispetto all'imperante approccio del tempo, prevedeva un'adesione corale alla manovra[7] – una sorta di zonaante litteram in salsa latinoamericana –, con giocatori liberi da ruoli predefiniti ma istruiti con precisi movimenti da ripetere in campo, in modo da far funzionare al meglio quel pressing con cui attaccare gli spazi e logorare la resistenza avversaria.[6] Tra i precursori nel suo genere, il movimiento finirà tuttavia per essere inviso a colui che era il capitano nonché la stella indiscussa dei bianconeri, Omar Sívori, il quale mal sopportò l'improvvisa perdita di tutte quelle licenze, sia in partita sia soprattutto in allenamento, di cui fin lì aveva sempre goduto a Torino.[8]
Il nuovo approccio heribertiano, almeno in Serie A, non riuscì nell'immediato a far fare il salto di qualità all'undici sabaudo che, di fatto rinforzatosi rispetto a dodici mesi prima col solo attaccante franco-argentino Combin, chiuse il campionato al quarto posto della classifica (a pari merito con la Fiorentina), non riuscendo mai a inserirsi nella lotta al vertice che rimase circoscritta alle due milanesi.[4] Discorso diverso per le coppe, dove il cammino dei piemontesi si rivelò ben più fruttuoso. In questa stagione la Juventus raggiunse la sua prima, importante finale europea nella Coppa delle Fiere, dove dopo aver eliminato in semifinale (alla ripetizione[9]) gli spagnoli dell'Atlético Madrid,[10] nell'atto conclusivo del 23 giugno 1965 la squadra non seppe sfruttare il vantaggio ambientale di una gara unica da giocarsi tra le mura amiche dello stadio Comunale,[11] uscendo sconfitta per mano dei magiari del Ferencváros.[12]
Andò invece a buon fine il percorso in Coppa Italia, chiusosi con la quinta affermazione bianconera nella manifestazione: dopo aver avuto la meglio in sequenza nei precedenti turni a eliminazione diretta, di Alessandria, Brescia, Lecco, Bologna e, in semifinale, dei concittadini del Torino, nella finale del 29 agosto 1965 la Vecchia Signora superò allo stadio Olimpico di Roma la Grande Inter campione d'Italia, d'Europa e del Mondo in carica col minimo scarto, grazie a una rete di Menichelli.[13] Una vittoria arrivata senza il Cabezón Sívori il quale, definitivamente entrato in rotta coi modi «socialdemocratici» del ginnasiarca Herrera[14] – il paraguaiano, perseverando nella sua visione di calcio, arrivò a paragonare pubblicamente il fuoriclasse italo-argentino a uno sconosciuto ventenne delle giovanili bianconere –,[6] dopo otto anni decise di svestire la casacca bianconera per migrare al Napoli, nient'affatto trattenuto dall'esigente HH2.[8][14]