Il Simposio (in greco antico: Συμπόσιον?, Sympósion) noto anche con il titolo di Convito, o a volte anche Convivio, è forse il più conosciuto dei dialoghi di Platone.[1] In particolare, si differenzia dagli altri scritti per la sua struttura, che si articola non tanto in un dialogo, quanto nelle varie parti di un agone oratorio, in cui ciascuno degli interlocutori, scelti tra il fiore degli intellettuali ateniesi, espone con un ampio discorso la propria teoria su Eros ("Amore").
Verso la fine, fa una clamorosa irruzione anche Alcibiade, completamente ubriaco, incoronato di edera e di viole, accompagnato dal suo komos, che si presenta per festeggiare Agatone, e che viene accolto con cordialità. Alla fine del banchetto, la mattina seguente, Socrate (uno dei pochi rimasti svegli per tutta la notte) lascia l'abitazione e, seguito da Aristodemo, si dirige verso il Liceo, luogo nel quale Aristotele, molti anni dopo, fondò la sua scuola.
Prologo
Durante una notte ad Atene due personaggi, Apollodoro e un suo amico indicato col semplice connotativo hetairos (= un amico), passeggiano conversando per le vie della città. A un certo punto, l'amico di Apollodoro gli chiede di raccontargli del famoso banchetto tenutosi in casa di Agatone con Socrate, Pausania, Fedro, Erissimaco, Aristofane e molti altri.
Prima di iniziare il suo racconto, Apollodoro spiega che il banchetto si era svolto molti anni prima e che egli ne aveva sentito parlare da Aristodemo, un allievo di Socrate che vi aveva presenziato. La cornice del dialogo attesta così un triplice livello di "incassamento" narrativo: Apollodoro racconta a un amico che Aristodemo gli ha raccontato che, nel corso del banchetto a casa di Agatone, si è svolta tra i commensali una discussione sulla natura dell'amore.
Una sera, Aristodemo incontra per la strada Socrate, e nota che il filosofo si è fatto incredibilmente bello: è ben vestito, profumato e indossa perfino dei sandali, cosa davvero insolita per uno come lui. Socrate spiega che si sta dirigendo in casa di Agatone, il quale sta dando una festa per celebrare una sua vittoria teatrale e Aristodemo lo segue incuriosito.
Tuttavia per la strada Socrate rimane indietro a riflettere ed entra in casa solo a metà della festa[3], malgrado i continui richiami di Agatone. Dopo essersi puliti ed aver bevuto del buon vino mielato, il padrone di casa chiede agli invitati di che cosa vogliano discutere quella sera e uno di loro, Erissimaco, propone la discussione su Eros, ovvero sull'Amore. Tutti sono entusiasti dell'argomento e cominciano a dialogare.
Fedro
Il primo a parlare tra gli invitati è Fedro. Egli afferma che Eros è il più antico fra tutti gli dèi ad essere onorato, come attestano Esiodo, nella Teogonia, e Acusilao, i quali all'origine del mondo formano il Caos e la Terra e quindi anche Amore. Inoltre, Parmenide sostiene che la Giustizia «per prima, fra tutti gli dei, si prese cura di Amore»[4]. È Eros a spingere amante e amato a gareggiare in coraggio, valore, nobiltà d'animo: gli eserciti, se costituiti da tutti amanti e amati, sono imbattibili:
«Se vi fosse dunque qualche possibilità perché una città o un esercito fossero costituiti per intero da amatori e da amati, non vi è modo per cui potessero disporre meglio la propria esistenza tenendosi lontani da ogni bruttura e gareggiando tra di loro in desiderio di gloria, e combattendo insieme gli uni con gli altri, essi vincerebbero, anche se in pochi, per così dire, tutti gli uomini. Infatti l'uomo che ama sarebbe disposto ad essere visto da tutti gli altri mentre abbandona la posizione o getta via le armi più che dal proprio amato e sceglierebbe di morire più volte invece di questo. E quanto ad abbandonare l'amato o non portargli aiuto quando corre pericolo non c'è nessun vile a tal punto che amore stesso non lo renda pieno di ardore in valore, tanto da eguagliarlo anche a chi è valorosissimo in natura...»
(Simposio 178e-179a; trad.: G. Giardini)
Fedro porta alcuni esempi, primo fra tutti quello di Alcesti che superò in amore i genitori di Admeto, suo sposo, tanto da farli apparire estranei alla sua vicenda e da suscitare l'ammirazione degli dei; cosa che non avvenne a Orfeo, che tornò indietro dall'Ade senza risultato, poiché era apparso vile. Gli dei invece onorarono Achille, che per sua scelta morì in aiuto e vendetta di Patroclo, suo amante, riservando a lui l'Isola dei Beati[5].
Verso la fine del discorso si assiste a un rovesciamento del concetto greco secondo il quale l'amato è superiore all'amante, perché autosufficiente, non soggetto a urti e scossoni. Perciò il greco ama l'uomo, ritenendo la donna indegna di un essere superiore. Qui invece la superiorità è dell'amante e perciò il merito maggiore è dell'amato che ama, Achille, mentre Alcesti non è amata, ma amante. L'ultima frase del discorso inoltre sottolinea l'importanza di Amore:
«Così io sostengo che Amore è il più antico fra gli dei, il più meritevole di onore e quello che è più padrone di spingere gli uomini, da vivi e da morti, all'acquisto della virtù e della felicità.»
(Simposio 180b)
Pausania
Pausania è il secondo a parlare fra gli ospiti. Egli distingue due generi di Amore, poiché come esistono due Afroditi (l'Afrodite Urania, "celeste", figlia di Urano, e l'Afrodite Pandèmia, "comune", "volgare", figlia di Zeus e di Dione) così esistono anche due Amori: il primo detto "Celeste", si accompagna all'Afrodite "Urania", il secondo detto "Volgare", si accompagna invece all'Afrodite "Pandèmia".
L'Amore Volgare è volto ad amare i corpi più che le anime e, partecipando di entrambe le nature dei suoi genitori, maschile e femminile, preferisce tanto le donne - considerate nella cultura greca antica oggetto inferiore d'amore - quanto i fanciulli imberbi, quindi facilmente plagiabili. L'Amore "Celeste", invece, trascende quello corporale e si fa guida verso un elevato sentire: «è bello in tutti i modi dunque a causa della virtù mostrarsi compiacenti». Il suo discorso si conclude con una ricerca della giustificazione dell'amore omofilo basandosi sui nomoi (cioè le norme, siano esse leggi scritte o no) delle varie regioni della Grecia - "In Elide, a Sparta e presso i Beoti, dove non vi sono abili parlatori risulta stabilita semplicemente la norma che è bello concedersi agli amanti", (182b) - mostrando come ciò sia disprezzato «nella Ionia e nelle altre regioni dominate dai barbari» , mentre ad Atene il nomos è più complicato, poiché è considerato lecito farlo in privato, riprovevole farlo in pubblico.
«È cosa brutta quando si ha compiacenza per un abbietto e in maniera abbietta, è bella invece quando la si prova per uno meritevole e in maniera bella. Abbietto è l'amante volgare, innamorato più del corpo che dell'anima: non è un individuo che resti saldo, come salda non è nemmeno la cosa che egli ama. Infatti quando svanisce il fiore della bellezza del corpo del quale era preso "si ritira a volo" ad onta dei molti discorsi e delle promesse. Chi invece si è innamorato dello spirito quando è nobile resta costante per tutta la vita perché si è attaccato a una cosa che resta ben salda.»
(Simposio 183d-e)
Erissimaco
Come terzo, in sostituzione di Aristofane che è colto dal singhiozzo, interviene Erissimaco, il quale, da buon medico, considera l'amore un fenomeno naturale e ne distingue gli aspetti normali da quelli morbosi. Nell'esporre la sua teoria si trova d'accordo sulle due specie d'Amore individuate da Pausania: «che Amore dunque sia duplice, pare a me che sia un distinguere bene», con una piccola differenza però: al posto dell’Afrodite Pandemia (Volgare), Erissimaco pone l'Afrodite "Polimnia" ("dai molti inni", cioè portatrice di disordine). Amore infatti, come ogni cosa in natura, deve essere armonico ed equilibrato in ogni sua azione - «comunione di opposti»: infatti la "soverchieria", "il disordine" insiti in ogni forma di attrazione non possono riuscire a buon fine, ma determinano contagi, malattie, guasti e distruzione; «ma quando invece l'Amore diventa incontenibile e infuria violento durante le stagioni dell'anno, produce guasti e distrugge molte cose» (188a-b).
All'inizio del suo discorso, inoltre, Erissimaco ci propone una sua definizione di medicina, e di armonia, e afferma che «nella musica, nella medicina e in tutte le altre attività umane e divine, per quanto è dato, bisogna bene osservare l'uno e l'altro di questi amori: infatti sussistono ambedue».
Erissimaco infine, come Pausania, cerca anch'egli una giustificazione per l'amore omofilo, trovandola in maniera più fondata nella Physis (natura) piuttosto che nel Nomos.
Come quarto, rimessosi dal singhiozzo, interviene Aristofane[6], il quale spiega la sua devozione verso Amore per mezzo di un fantasioso, ma significativo mito. Per lui, all'origine del mondo, gli esseri umani erano differenti dagli attuali, formati da due degli umani attuali congiunti tramite la parte frontale (pancia e petto). Inoltre essi erano di tre generi: il maschile, il femminile e l'androgino, che partecipa del maschio e della femmina (cioè, appunto, ἀνδρόγυνος, "uomo-donna"). La forma degli uomini era inoltre circolare: quattro mani, quattro gambe, due volti su una sola testa, quattro orecchie, due organi genitali e tutto il resto come ci si può immaginare. Questa natura doppia è però stata spezzata da Zeus, il quale fu indotto a tagliare a metà questi esseri per la loro tracotanza, al fine di renderli più deboli ed evitare che attentassero al potere degli dei (d'altro canto, eliminarli del tutto avrebbe comportato la perdita dell'unica forma vivente da cui gli dei erano venerati).
«Da tempo è dunque connaturato che negli uomini l'amore degli uni per gli altri che si fa conciliatore dell'antica natura e che tenta di fare un essere solo da due e di curare la natura umana. Ciascuno di noi dunque è come un contrassegno (σύμβολον) d'uomo, giacché è tagliato in due come sogliole, da uno diventa due.»
(Simposio 191c-d)
Ma da questa divisione in parti nasce negli umani il desiderio di ricreare la primitiva unità, tanto che le "parti" non fanno altro che stringersi l'una all'altra, e così muoiono di fame e di torpore per non volersi più separare. Zeus allora, per evitare che gli uomini si estinguano, manda nel mondo Eros affinché, attraverso il ricongiungimento fisico, essi possano ricostruire "fittiziamente" l'unità perduta, così da provare piacere (e riprodursi) e potersi poi dedicare alle altre incombenze cui devono attendere.
«Questo è il motivo per il quale la nostra natura antica era così e noi eravamo tutti interi: e il nome d'amore dunque è dato per il desiderio e l'aspirazione all'intero.»
(Simposio 192e)
Agatone
Per quinto parla il padrone di casa, Agatone, che definisce Amore il dio più bello e più nobile. Egli si incarica di dire «qual è e di quali beni artefice» è Amore. «Amore è il più felice perché è il più bello e il migliore. È il più bello perché è tale: anzitutto è il più giovane tra gli dei», e inoltre «è il più giovane e il più soave, e oltre a ciò è come flessuoso nell'aspetto. Non sarebbe infatti in grado di abbracciarsi ovunque, né di entrare in ogni anima di nascosto e poi uscirne se fosse inflessibile». Da sottolineare l'affermazione che «tra Amore e bruttezza c'è sempre guerra», poiché Amore simboleggia la bellezza, «la sua esistenza tra i fiori reca una testimonianza della bellezza della carnagione del dio». Egli non fa ingiustizia né la subisce, perché "giustizia", "morigeratezza", "potenza" e "sapienza" sono le virtù che lo contraddistinguono:
«La cosa più grande è che Amore non fa ingiustizia né la subisce da parte di un dio né contro un dio, né da parte di un uomo, né contro un uomo; né egli soffre per violenza, se pure prova qualche sofferenza, perché la violenza non si attacca ad Amore; né quando agisce, agisce con violenza, perché ognuno volentieri in tutto serve ad Amore e le cose che mettono d'accordo chi lo desidera con chi lo desidera, "le leggi regine della città" dicono che è giusto.»
Socrate interviene per sesto e ultimo. Sulle prime tenta di schermirsi per la sua incapacità come oratore, ma sostenuto dalla convinzione che su ogni cosa «basta dire la verità», decide di fare lo stesso anche con Eros, scegliendo ed ordinando nel modo migliore le cose più belle. Infatti gli elogi di Eros fatti dai precedenti oratori poggiavano tutta la loro efficacia sul dispiego della retorica e su argomentazionisofistiche, arrivando a gareggiare nell'associare ad Eros i migliori benefici[7]. Socrate invece, come detto, partirà dalla verità.
In sostanza, «Amore è amore di alcune cose», in particolare «di quelle di cui si avverte mancanza». A questo punto sul discorso di Socrate si innesta quello di Diotima, sacerdotessa di Mantinea, maestra di Socrate della concezione di Amore. Secondo essa «Amore non è bello [...] e non è neanche buono», fu concepito da Penìa (Povertà), che come detto dalla sacerdotessa approfittò di Póros (la Via), ubriaco, alla festa del genetliaco di Afrodite: egli è quindi un essere intermedio tra il divino e l'umano che, assieme alle qualità positive, assomma in sé anche quelle negative. Socrate, come apprende da Diotima, era caduto nello stesso equivoco nel quale cadono tutti o quasi tutti gli uomini che in Amore vedono solo il lato più bello. Tutto questo deriva dal fatto che Amore viene identificato con l'amato e non con l'amante: il primo è delicato, compiuto, il secondo invece è quale appare nella descrizione che Diotima ne viene facendo. Ma qual è la molla che spinge l'amante verso l'amato? L'attrazione della bellezza può essere uno stadio, ma non se è fine a se stessa: tra gli uomini chi è fertile nel corpo è attratto dalla donna e cerca la felicità nella discendenza della prole e nella continuità, chi invece è fertile nell'anima cerca un'anima bella a cui unire la propria[8], e può creare con questa una comunanza più profonda di quella che si può avere con i figli. Su questo piano chi ama riuscirà «a capire che tutto il bello che riguarda il corpo è cosa ben da poco».[9] Quindi accusa gli altri di aver attribuito false qualità ad Eros.
Alcibiade: «Socrate è un sileno»
Dopo che Socrate ha concluso il suo discorso, irrompe nella sala del banchetto Alcibiade ubriaco e, dopo una breve schermaglia con Socrate, ne tesse il più splendido elogio. Pur senza aver udito le considerazioni di Socrate, Alcibiade viene a darne la più viva e diretta dimostrazione: Socrate gli è stato maestro, amico, gli ha salvato la vita in battaglia, gli ha fatto attribuire dagli strateghi, in guerra, quei riconoscimenti che avrebbe meritato per sé.
«Quando avvenne lo scontro per il quale gli strateghi mi concessero i premi del valore, nessuno tra i soldati mi salvò se non costui, che non volle abbandonarmi benché ferito, ma con me trasse in salvo anche le armi. E io, Socrate, anche in quell'occasione chiesi ripetutamente agli strateghi che i riconoscimenti li concedessero a te. [...] Ma gli strateghi guardando solo alla mia condizione erano intesi a dare a me le insegne del valore e tu ti impegnasti più di loro perché fossi io a riceverle e non tu.»
(Simposio, 220d-e)
Socrate gli ha resistito quando egli gli ha fatto dono della propria bellezza, perché non a questo mirava[10]. Era attratto piuttosto «dalla bellezza in sé, genuina, pura, non mescolata, non incorporata di carni umane, né di colori, né di ogni altra vacuità mortale». Era desideroso di contemplare la «bellezza divina nel suo unico aspetto».
«Sappiate che a lui non importa nulla se uno è bello e ne fa così poco conto quanto nessun altro, né gli interessa se è ricco o se ha un altro titolo di quelli che, per la gente, portano alla felicità. Ritiene di ben poco conto tutti questi beni, e che noi, vi assicuro, non siamo nulla e passa la sua vita ostentando candore e scherzando, ma quando poi si impegna seriamente e si apre, non so se uno ha mai visto le splendide qualità che ha all'interno: io le ho già osservate, da tempo, e mi apparvero così divine, dorate, belle e meravigliose da provare che si doveva fare subito quel che Socrate comandava.»
(Simposio 216d-e)
«Si potrebbero dire, senza dubbio, molte altre cose per lodare Socrate e tutte da far meraviglia, ma mentre per ogni altro atteggiamento nella vita tali cose si potrebbero dire anche di altri, il fatto di non essere egli simile a nessuno degli uomini, né degli antichi, né di quelli di adesso, questa è cosa degna di ogni meraviglia. [...] Ma come è fatto quest'uomo, quanto a stranezza, lui e i suoi discorsi, neppure cercando si potrebbe trovare uno che gli si avvicini né tra gli uomini d'ora, né tra quelli di un tempo, a meno di metterlo a confronto con quelli che dico io, cioè non con un uomo, ma con i sileni e i satiri, lui e i suoi discorsi.»
^Platone, Simposio, intr. di B. Centrone, a cura di M. Nucci, Einaudi, Torino 2009.
^K. J. Dover, The Date of Plato's "Symposium", Phronesis, Vol. 10, No. 1 (1965), pp. 2-20.
^Gerard J. Boter, Plato "Symposium" 175B1: ὉΣ as the Nominative Singular of the Indirect Reflexive Pronoun, Mnemosyne, Fourth Series, Vol. 59, Fasc. 1 (2006), pp. 129-134.
^Friedrich Solmsen, Parmenides and the Description of Perfect Beauty in Plato's Symposium, The American Journal of Philology, Vol. 92, No. 1 (gennaio, 1971), pp. 62-70.
^Jord Pamias, Phaedrus' Cosmology in the "Symposium": A Reappraisal, The Classical Quarterly, New Series, Vol. 62, No. 2 (dicembre 2012), pp. 532-540.
^Paul O'Mahoney, On the "Hiccuping Episode" in Plato's "Symposium", The Classical World, Vol. 104, No. 2 (Winter 2011), pp. 143-159.
^Mary P. Nichols, Socrates' Contest with the Poets in Plato's Symposium, Political Theory, Vol. 32, No. 2 (Apr., 2004), pp. 186-206.
^F. C. White, Beauty of Soul and Speech in Plato's "Symposium", The Classical Quarterly, New Series, Vol. 58, No. 1 (May, 2008), pp. 69-81.
^ Platone, Simposio, Firenze, La Nuova Italia, 1990, p. 67, 210 b-c, ISBN88-221-0001-8. "Chiunque intenda procedere correttamente in queste faccende, continuò, bisogna che cominci, fin dalla giovinezza, ad avvicinarsi ai bei corpi, e innanzi tutto, se è ben condotto da colui che lo guida, ad amare un solo corpo e a generare, vicino ad esso, nobili discorsi; ma, in seguito, dovrà comprendere che la bellezza di un qualunque corpo / è sorella rispetto alla bellezza di un altro: giacché, infatti, se si deve ricercare il bello nell'aspetto, sarebbe una gran stoltezza non rendersi conto che una e la stessa è la bellezza presente in tutti i corpi. Ed avendo compreso questo, è necessario che egli diventi l'amante di ogni bel corpo, e che attenui quel suo ardore rivolto ad uno soltanto, disprezzandolo e considerandolo di poca importanza. Dopo di ciò, deve giungere a ritenere la bellezza che è nelle anime più degna di considerazione rispetto a quella del corpo, così da contentarsi se qualcuno abbia un'anima degna, ma / un corpo che è fiore di modesta bellezza, ed amarlo e prendersene cura, e produrre e ricercare quei discorsi che rendono migliori i giovani, al fine di venire spinto, ancora, ad osservare il bello che è nelle occupazioni e nelle leggi, e a vedere, poi, come tutto questo bello è in se stesso omogeneo, perché possa capire quanto sia piccola cosa, invece, il bello di un corpo".
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Saggi
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Articoli
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Henry G. Wolz, Philosophy as Drama: An Approach to Plato's Symposium, in «Philosophy and Phenomenological Research», Vol. 30, No. 3 (Mar., 1970), pp. 323-353
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