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L'espressione moti di Reggio (anche fatti di Reggio o rivolta di Reggio Calabria) indica una sommossa popolare avvenuta a Reggio Calabria dal luglio del 1970 al febbraio del 1971, in seguito alla decisione di collocare il capoluogo di regione a Catanzaro nel quadro dell'istituzione degli enti regionali.
Nell'estate 1949 la I commissione permanente Affari interni della Camera dei deputati nominò un comitato d’indagine sul capoluogo calabrese, a cui si rivolsero da allora in poi le aspirazioni delle tre città contendenti - Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria - sotto forma di pubblicazioni dimostranti la reciproca prevalenza storica, geografica, economica e di ogni altro genere. A valle di alcuni sopralluoghi nei tre capoluoghi di provincia, il comitato consegnò la relazione denominata "Donatini-Molinaroli", dal nome del presidente del comitato d’indagine e dell’estensore, che stabiliva che Catanzaro fosse il capoluogo della Regione Calabria. Il 24 gennaio 1954 la commissione Affari interni decise di non esprimersi sulla relazione "Donatini-Molinaroli" e di deferire la scelta del capoluogo all’assemblea parlamentare[1].
Con l'istituzione della Regione Calabria nel 1970 si riaccese il dibattito sulla collocazione del capoluogo, poiché più d'una città aspirava a esserlo.
Queste rivendicazioni avevano origini storiche: a partire dall'epoca normanno-sveva e fino all'Unità d'Italia il territorio dell'attuale Regione Calabria era amministrativamente suddiviso in due, e fino a tempi a noi relativamente vicini si diceva "le Calabrie", come testimoniato dalla denominazione ufficiale della Strada Statale 19, detta appunto "delle Calabrie". Il territorio regionale era chiamato quindi Calabria Citeriore, nella parte comprendente l'attuale Provincia di Cosenza, mentre per la restante parte più meridionale della penisola, cioè le attuali Province di Crotone, Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria, la denominazione era quella di Calabria Ulteriore.
La Calabria Citeriore ebbe sempre un unico capoluogo, o meglio, come si sarebbe detto allora, un'unica sede dell'intendenza nella città di Cosenza (già dal geografo greco Strabone definita Μητρόπολις τῶν Βρεττίων[2], ovvero capitale dei Bretti o Bruzi, e BRVTTIVM era il nome della regione nella denominazione romana). L'intendenza di Calabria Ulteriore invece ebbe tre sedi in periodi diversi, ovvero Reggio, Catanzaro e Monteleone Calabro, l'attuale Vibo Valentia. Reggio lo fu dal 1147 al 1443 e dal 1465 al 1582; Catanzaro dal 1443 al 1465 e dal 1593 al 1806; Monteleone dal 1582 al 1593 e dal 1806 al 1816[3]. Le tre città ebbero quindi tutte alternativamente giurisdizione sull'allora Calabria Ulteriore.
La questione diventò se possibile ancora più complessa a partire dal 1817, anno in cui, nel quadro generale della riorganizzazione amministrativa dei regni di Napoli e di Sicilia, divenuti, per volontà di Re Ferdinando I di Borbone, Regno delle Due Sicilie, la provincia di Calabria Ulteriore fu ulteriormente suddivisa in Calabria Ulteriore Prima e Calabria Ulteriore Seconda, con capoluoghi rispettivamente Reggio e Catanzaro. Tale suddivisione venne mantenuta, sia con l'Unità d'Italia che dopo l'istituzione della Regione Calabria nel 1970, nelle tre amministrazioni provinciali di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria. L'attuale ripartizione regionale in cinque province risale al 1992 con la nascita della Provincia di Crotone e della Provincia di Vibo Valentia, entrambe frutto della frammentazione in tre del territorio che fino ad allora era appartenuto alla sola Provincia di Catanzaro.
Fu una rivolta popolare e trasversale[senza fonte] a livello politico (a esclusione del Partito Comunista e quello Socialista subito dissociatisi), ma in una seconda fase i movimenti di destra, ed in particolare il Movimento Sociale Italiano, assunsero un ruolo di primo piano. Il sindacalista della CISNAL Ciccio Franco, esponente missino, rilanciò il motto «boia chi molla!» di dannunziana memoria e ne fece uno slogan per cavalcare la tigre della protesta dei reggini per opporsi alla scelta di Catanzaro come capoluogo, indirizzandola in senso antisistemico e neofascista.
Il 13 luglio fu proclamato lo sciopero che ebbe scarsa adesione a seguito della improvvisa defezione della CGIL che dichiarò la propria "indisponibilità per battaglie di tipo campanilistico"[4]. Al contempo presero le distanze dai manifestanti anche il PCI e il PSI. Il giorno seguente fu proclamato un nuovo sciopero cui partecipò la popolazione reggina che percorse corso Garibaldi fino a piazza Italia dove il sindaco Pietro Battaglia, affiancato dal consigliere provinciale del MSIFortunato Aloi, tenne un comizio.[4] In serata furono occupate la stazione ferroviaria di Reggio e di Villa San Giovanni finché non furono sgombrate da un duro intervento delle forze dell'ordine che arrestarono numerosi manifestanti. Si contarono circa quaranta feriti.
Il 15 luglio furono assaltate dai manifestanti le sedi del PCI e del PSI, partiti che si erano sfilati dalla protesta. Nel reprimere la protesta, la polizia, durante una carica, uccise il ferroviere Bruno Labate iscritto alla CGIL.[5] Il 17 luglio ancora incidenti e lo studente diciassettenne Antonio Coppola venne ricoverato in ospedale in coma e il 18, in occasione dei funerali del ferroviere Bruno Labate, la polizia presidiò il corteo imbracciando i mitra.[6] La rivolta, del resto, assunse subito caratteri violenti, collegandola addirittura il 22 luglio 1970 alla strage di Gioia Tauro, dove una bomba fece deragliare il "Treno del Sole", Palermo-Torino, provocando sei morti e cinquantaquattro feriti. Il 29 luglio come reazione ad un vertice del centrosinistra, tenutosi a Roma, in cui si parlava per Reggio solo di sviluppo industriale, venne indetto un nuovo sciopero generale.
I "comitati d'agitazione"
Nacquero vari comitati, tra cui il Comitato unitario per Reggio capoluogo guidato dal sindaco democristianoPietro Battaglia e da altri esponenti sia democristiani sia missini. Il Comitato d'agitazione nato già nel 1969 sotto la guida dell'avvocato Francesco Gangemi il 29 luglio 1970 si sciolse e costituì il nuovo Comitato unitario. Un altro comitato faceva riferimento all'armatore Amedeo Matacena senior e all'industriale Demetrio Mauro.
Ma il vero motore organizzativo e politico della protesta popolare fu il Comitato d'azione per Reggio capoluogo nato il 22 luglio 1970 i cui principali esponenti erano Ciccio Franco, l'ex partigiano Alfredo Perna, Rocco Zoccali, Rosario Cassone, Franco Arillotta, il consigliere provinciale del MSIFortunato Aloi e Giuseppe Avarna duca di Gualtieri il quale fondò il Movimento di Rinnovamento Italiano che esortava nei suoi manifesti le "forze sane della Nazione" ad agire contro i partiti[7]. Il 30 luglio seimila persone in piazza Italia ascoltarono gli esponenti del Comitato d'azione: parlarono Fortunato Aloi (MSI), Ciccio Franco della Cisnal e l'industriale del caffè Demetrio Mauro.
«Questa è la nostra rivolta, il primo passo della rivoluzione nazionale.»
Il 17 settembre 1970 Franco e l'ex partigiano Alfredo Perna[8] del Comitato d'azione per Reggio Capitale furono arrestati con l'accusa di istigazione a delinquere e apologia di reato e condannati, ma furono tutti rimessi in libertà provvisoria il 23 dicembre 1970. Ma la reazione fu devastante: due armerie vennero prese d'assalto, cinquecento persone assaltarono la Questura e un poliziotto, Vincenzo Curigliano, 47 anni, morì colpito da infarto.
Nuovamente ricercato dalla polizia Ciccio Franco nel febbraio 1971 fu per breve tempo latitante. In questo periodo, nel suo rifugio segreto, fu raggiunto e intervistato da Oriana Fallaci[9], a cui spiegò dal suo punto di vista la nascita dei moti a Reggio:
«Specie nei quartieri popolari v'erano tanti ragazzi che ritenevano che Reggio potesse esser difesa dai partiti della sinistra o di centro-sinistra. E, dopo la posizione assunta dai partiti di sinistra e di centro-sinistra contro Reggio, questi ragazzi hanno ritenuto di dover rivedere la loro posizione anche politicamente. Molti, oggi, fanno i fascisti semplicemente perché ritengono che la battaglia di Reggio sia interpretata in modo fedele solo dai fascisti.»
(Ciccio Franco intervistato da Oriana Fallaci nel febbraio 1971[10])
I tumulti e l'intervento dell'esercito
Il 9 agosto il deputato del PCI Pietro Ingrao tenne un comizio in piazza Italia, ma fu contestato dalla folla, riuscendo a stento a concludere. Il 16 agosto fu formato il nuovo governo presieduto dal democristianoEmilio Colombo. Il 17 settembre l'emittente clandestina "Radio Reggio Libera" diffuse il seguente proclama:
«Reggini! Calabresi! Italiani! Questa è la prima trasmissione di radio Reggio Libera. La battaglia contro l'ipocrisia e lo strapotere della mafia politica e dei baroni rossi riguarda l'avvenire di tutti gli italiani. Essa cesserà solo alla vittoria con l'instaurazione di una vera democrazia. Viva Reggio capoluogo! Viva la nostra Calabria! Viva la nuova Italia!»
Nella serata stessa sul ponte Calopinace fu ucciso Angelo Campanella, 45 anni, autista dell'Azienda Municipale Autobus di Reggio. Il governo presieduto da Colombo negò qualunque negoziazione con i rappresentanti della protesta e oltre a provvedere all'invio di contingenti militari, iniziò una sistematica opera di demolizione mediatica della rivolta[senza fonte]. I mezzi di comunicazione, infatti, dopo un iniziale interessamento, limitarono notevolmente per i mesi a seguire la cronaca riguardo alla rivolta di Reggio e descrissero come "pretestuoso pennacchio" la richiesta dei reggini di ottenere per la propria città il ruolo di capoluogo.
Il 24 febbraio 1971 a Reggio Calabria apparvero volantini firmati da un misterioso Movimento Rivoluzionario di Riscossa con un "proclama per l'eroico popolo reggino" che affermava:
«stanno per crollare tutti i falsi altari di una classe dirigente incapace e corrotta che è venuta dietro le salmerie delle truppe occupanti di colore [...] Per noi la violenza può essere, come la guerra, necessità durissima di certe determinate ore storiche. Noi siamo violenti tutte le volte che è necessario esserlo. Quando la violenza è risolutiva di una situazione cancrenosa, è non soltanto moralissima, ma sacrosanta e necessaria».[7]
«Padroni bastardi, del capoluogo non sappiamo che farcene! Il capoluogo va bene per i burocrati, gli speculatori, i parassiti, i padroni e i politicanti più grossi; va bene per le manovre dei caporioni locali, per il sindaco Battaglia e per i caporioni falliti. Va bene per il tentativo di questi "uomini importanti" di accrescere il loro potere locale, la loro area di sfruttamento, facendoci sfogare anni di malcontento con la falsa lotta per il capoluogo, dopo che hanno mandato i nostri figli e i nostri fratelli a lavorare all'estero e continuano a sfruttarci nella stessa Reggio. I cosiddetti “datori di lavoro”, che in realtà sono luridi padroni, sono i nostri nemici, quegli stessi che ci mandano allo sbaraglio per il capoluogo, per la Madonna o per la squadra di calcio. Il capoluogo non ci serve! Lottiamo per farla finita con l'emigrazione, con la disoccupazione, con la fame!»
Il 26 settembre i cinque "anarchici della Baracca", mentre si recavano a Roma per consegnare ad Umanità Nova materiale di denuncia poi mai ritrovato, morirono sull'Autostrada del Sole, all'altezza di Ferentino, in un misterioso incidente stradale causato da un camion. I due camionisti coinvolti, secondo le contro-inchieste portate avanti dagli anarchici[11], tra cui Giovanni Marini[12], erano dipendenti di una ditta facente capo al principe Junio Valerio Borghese[13].
Carmine Dominici, pentito di 'Ndrangheta ed ex militante di Avanguardia Nazionale[14], nel 1994 dichiarò che i cinque anarchici, secondo lui e secondo molti militanti avanguardisti calabresi, sarebbero stati uccisi volontariamente e che l'incidente sarebbe stato simulato, ma di non saperne indicare i responsabili, che sicuramente non provenivano dalla Calabria.[15] Inoltre, poco dopo l'incidente accorse sul posto la polizia proveniente da Roma, invece che la polizia stradale[16], e si ipotizza che i cinque fossero, dunque, seguiti da polizia e servizi segreti. I dati raccolti da Fabio Cuzzola, nel suo libro Cinque Anarchici del Sud (Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, 2001) depongono per una correlazione tra i guidatori del camion investitore e gli ambienti neo-fascisti del Fronte Nazionale.
Per mesi la città fu barricata, spesso isolata, a tratti paralizzata dagli scioperi e devastata dagli scontri con la polizia e gli attentati dinamitardi. Vennero interrotte le comunicazioni ferroviarie arrivando fino alla distruzione delle apparecchiature della stazione di Reggio Calabria Lido. Alla fine della rivolta si contarono sei morti tra i civili[19], centinaia di feriti e migliaia di denunce: il Ministro dell'internoFranco Restivo, il 30 settembre 1970 annunciò che "Dal 14 luglio al 23 settembre sono stati compiuti 13 attentati dinamitardi, si sono avuti 33 blocchi stradali, 14 blocchi ferroviari, 3 blocchi portuali e aeroportuali; si sono verificati 6 assalti alla prefettura e 4 alla questura".[20]
La rivolta fu sedata, dopo mesi di assedio, nel febbraio del 1971, con l'immagine dei carri armati sul lungomare della città. Oltre alla forza, per la soppressione della rivolta si ricorse anche a mediazioni e compromessi politici (il cosiddetto "Pacchetto Colombo") che portarono ad un'insolita divisione degli organi istituzionali della Calabria (la giunta regionale a Catanzaro, il consiglio a Reggio Calabria) e all'insediamento nel territorio reggino di apparati produttivi che non furono mai realizzati o furono subito oggetto di speculazioni da parte della 'ndrangheta (es. i poli industriali di Saline Joniche e di Gioia Tauro). Ciccio Franco fu eletto al Senato nel 1972, ottenendo il 36% dei voti nel collegio, addirittura il MSI raggiunse il 46,29% a Reggio, doppiando la DC[21]. Durante l'esperienza politica al Senato, Franco fu criticato ferocemente dal senatore socialista Salvatore Frasca per il ruolo avuto nei Fatti di Reggio.
«l'omertà diventa certamente più ferrea, quando non si ha il coraggio di indagare fino in fondo; non arrestando soltanto qualche giovincello iscritto al MSI, ma indagando nelle sedi del Movimento sociale italiano, nei centri della reazione reggina, tra i banchi del Parlamento in cui siedono i Ciccio Franco, gli Aloi ed altri parlamentari della destra nazionale che sono stati i veri caporioni della rivolta di Reggio Calabria, che sono gli autori dei tentativi di strage e delitti che si verificano nella nostra regione.»
Ma queste accuse a Franco come ad Aloi, nella successiva inchiesta del 1994, che riguardò l'operato del MSI reggino al tempo dei "fatti di Reggio" non portarono a nulla e gli indagati, già al termine dell'istruttoria, furono prosciolti.[22] Secondo le accuse di Giacomo Lauro (un pentito della 'ndrangheta), avvenute nel novembre 1993, alcuni esponenti del Comitato d'azione per Reggio Capitale guidato da Franco, avrebbero commissionato[23] alla 'ndrangheta alcune azioni eversive tra cui il deragliamento del treno di Gioia Tauro, avendo ottenuto finanziamenti da alcuni industriali reggini come Demetrio Mauro (imprenditore del caffè) all'armatore Amedeo Matacena senior[24].
Le parole di Lauro furono confermate anche da Carmine Dominici[25], che all'epoca era suo compagno di cella. Nel 1994 Giacomo Lauro ammise anche il proprio diretto coinvolgimento nell'attentato come esecutore materiale.[26].
Le dichiarazioni di Lauro provocarono il coinvolgimento di ex dirigenti dell'MSI come il generale Vito Miceli e l'ammiraglio Gino Birindelli, che si sosteneva avessero avuto rapporti stretti con Junio Valerio Borghese[27] e con la 'ndrangheta come Fortunato Aloi il senatore Renato Meduri di Alleanza Nazionale[28] ipotizzando un piano preciso per destabilizzare il paese a partire dal sud, dopo l'inizio da nord della Strategia della tensione.
Tutti i personaggi coinvolti nell'inchiesta risultarono innocenti e furono perciò prosciolti in fase istruttoria[29] ad eccezione di Giacomo Lauro che fu inizialmente assolto il 27 febbraio 2001 per mancanza di dolo. Nel gennaio 2006, si stabilì che il reato di Giacomo Lauro fu di concorso anomalo in omicidio plurimo, ormai prescritto[30]. Lauro fu inoltre uno dei pentiti che contribuirono all'inchiesta avviata dal giudice Guido Salvini di Milano che si occupava delle stragi compiute dai neofascisti degli anni settanta.[31]
Le conseguenze
Le vittime
Il bilancio complessivo fu di sei morti, cinquantaquattro feriti e migliaia di arresti.[senza fonte] I principali esponenti dei "fatti" furono processati a Potenza: Ciccio Franco fu in primo grado condannato a quattro anni di reclusione per istigazione a delinquere e apologia di reato a seguito del ruolo di leader della rivolta, ma le sue condanne caddero in prescrizione.
La reazione dei partiti di sinistra
Dal punto di vista politico, la reazione più significativa alla rivolta popolare della città di Reggio Calabria la diedero i sindacati dei metalmeccanici e degli edili, che con Bruno Trentin e Claudio Truffi organizzarono un'imponente manifestazione il 22 ottobre 1972 a Reggio, nella convinzione che la rivolta fosse motivata da un reale bisogno di riscatto e sviluppo e che la solidarietà dei lavoratori del nord potesse essere utile. Nella notte tra il 21 e il 22 ottobre 1972, per impedire la manifestazione, otto bombe furono fatte esplodere sui treni che trasportavano i lavoratori diretti a Reggio Calabria.
Nella cultura di massa
Romanzi
Salutiamo, amico romanzo di Gianfrancesco Turano in cui, tramite l'amicizia di due giovani ragazzi, vengono descritti i Moti di Reggio.
^abAdalberto Baldoni, "Storia della destra, Dal postfascismo al Popolo della libertà", Edizioni Vallecchi, 2009, Firenze, p. 140
^Adalberto Baldoni, "Storia della destra, Dal postfascismo al Popolo della libertà", Edizioni Vallecchi, 2009, Firenze, p. 141:"Nel corso di una carica delle forze dell'ordine, viene travolto e ucciso il ferroviere Bruno Labate, iscritto alla SFI-CGIL"
^abBarricate a Reggio Calabria, su "History", n°4, luglio 2011, p. 16
^ab Giampaolo Pansa, Borghese mi ha detto. Il programma, gli uomini ombra, la conquista del potere nell'ultima intervista di Junio Valerio Borghese. La biografia completa del principe nero. I documenti e l'anagrafe dei movimenti della destra extraparlamentare, Palazzi, 1971, pp. 175-176.
^Articolo di La RepubblicaOriana Fallaci riuscì a intervistarlo per L'Europeo dalla latitanza nel febbraio del 1971
^Ciccio Franco nell'intervista ad Oriana Fallaci, L'Europeo nn. 5-6, 1971 (ristampato marzo 2009)
^Mario Caprara e Gianluca Semprini, Neri, la storia mai raccontata della destra radicale, eversiva e terrorista, Edizioni tascabili Newton, Roma 2011, p. 262; Aldo Giannuli ricostruisce la vicenda con dovizia di particolari e mettendo in luce la contraddizione delle fonti della controinformazione di estrema sinistra nel suo Bombe ad inchiostro
^http://labussola.altervista.org/page.php?93Archiviato il 5 marzo 2016 in Internet Archive.; "Giovanni Marini, un anarchico di Salerno, dopo l'incidente di Ferentino inizia delle indagini e scopre che l'uomo alla guida dell'autocarro che ha provocato la morte dei ragazzi è un dipendente di Junio Valerio Borghese".
^'Ndrangheta eversiva, pp. 61-62. Personalmente ritengo che quello dei cinque ragazzi non sia stato un incidente ma un omicidio. E tale opinione è condivisa anche da altri militanti avanguardisti. Non sono assolutamente in grado di indicare chi potrebbe aver preso parte alla presunta azione omicidiaria e, peraltro, era illogico che ci si rivolgesse a militanti calabresi in quanto ciò avrebbe comportato un pericoloso spostamento geografico.
^Mario Caprara e Gianluca Semprini, Neri, la storia mai raccontata della destra radicale, eversiva e terrorista, Edizioni tascabili Newton, Roma 2011, pp. 262-263: "Non è vero, per esempio, come scritto, che i due camionisti che provocarono l'incidente, i fratelli Serafino e Ruggiero Aniello, fossero dipendenti di una ditta di estrema destra....Peraltro i due camionisti, stando alle carte dell'UAAR (Ufficio affari riservati), sarebbero stati simpatizzanti del PSDI e non del Fronte Nazionale. Certo che erano dei veri pirati della strada questi fratelli Aniello, visto che il camion da loro portato, targato SA 135371, il 28 ottobre del 1970, causò un tamponamento, alle porte di Milano, in cui morirono 8 persone e ne restarono ferite 40"
^Osservatorio DemocraticoArchiviato il 22 marzo 2015 in Internet Archive.: "Giacomo Lauro indicò negli ambienti di Avanguardia Nazionale e del “Comitato d'azione per Reggio capoluogo” gli ispiratori della strage. Accusò Renato Marino, Carmine Dominici, Vito Silverini, Vincenzo Caracciolo e Giovanni Moro, di essere stati “il braccio armato che metteva le bombe e faceva azioni di guerriglia” per conto del “Comitato”, diretto da Ciccio Franco,”".
^Osservatorio DemocraticoArchiviato il 22 marzo 2015 in Internet Archive."Tra i finanziatori indicò il “commendatore Mauro”, “quello del caffè”, e l'imprenditore “Amedeo Matacena”, “quello dei traghetti”. “Davano i soldi” – testimoniò – “per le azioni criminali, per la ricerca delle armi e dell'esplosivo”".
^http://altravocedelsannio.webnode.it/news/ndrangheta-politica-massoneria-malaffare-le-inchieste-insabbiate-di-cordova-e-de-magistris/Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet Archive. "prova di questo ci sono le dichiarazioni del pentito Giuseppe Albanese che nel 1974 riferì di una riunione avvenuta in una villa di proprietà della famiglia Borghese lungo la Costa degli dei. A questo incontro parteciparono i boss della 'ndrangheta locale; membri dei servizi deviati; Stefano Delle Chiaie, fondatore di avanguardia nazionale; Lino Salvini, gran maestro del Grande Oriente d'Italia, accompagnato dai massoni marchesi Felice e Carmelo Genovese Zerbi, dai generali Gianadelio Maletti e Vito Miceli, dall'ammiraglio Gino Birindelli e da Edgardo Sogno"
^Osservatorio DemocraticoArchiviato il 22 marzo 2015 in Internet Archive.: "Nel luglio 1995, per concorso nella strage di Gioia Tauro, furono indagati dalla procura distrettuale di Reggio Calabria, l'armatore Amedeo Matacena, Angelo Calafiore, ex-consigliere provinciale di Reggio Calabria per il Msi- Destra nazionale, l'On. Fortunato Aloi e il senatore Renato Meduri, entrambi di Alleanza nazionale".
^[1] "sostiene il procuratore antimafia: «Mi auguro però che Giacomo Lauro possa continuare a collaborare con noi, perché è fondamentale per moltissime inchieste ancora in corso» "
Bibliografia
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Peppe Caridi, Intervista a Emilio Colombo sui Fatti di Reggio, su Reggio Calabria Notizie, 11 agosto 2010. URL consultato il 7 novembre 2022 (archiviato dall'url originale il 13 aprile 2013).