È interamente cantato in genovese, per molti secoli una delle principali lingue impiegate nell'ambito della navigazione e degli scambi commerciali nel bacino del Mediterraneo, in particolare dal basso Medioevo al XVII secolo.
Al centro dei testi vi sono i temi del mare e del viaggio, le passioni, anche forti, e la sofferenza altrettanto forte; questi temi vengono espressi anche sul piano musicale, tramite il ricorso a suoni e strumenti tipici dell'area mediterranea e l'aggiunta di contenuti non musicali registrati in ambienti portuali e/o marinareschi, come le voci registrate dei venditori di pesce al mercato ittico di Piazza Cavour a Genova[12].
Accoglienza
Il disco è stato considerato dalla critica come una delle pietre miliari della musica degli anni ottanta e, in generale, della musica etnica; David Byrne ha dichiarato alla rivista Rolling Stone che è uno dei dieci album più importanti della scena musicale internazionale del decennio,[13] e la rivista Musica e Dischi lo ha eletto migliore album degli anni ottanta.[14] Inoltre, l'album è nella posizione numero 4 della classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre, secondo la rivista Rolling Stone Italia.[15]
Storia
Intorno alla metà degli anni ottanta, la scelta di realizzare un disco destinato al mercato nazionale interamente in lingua ligure andava contro tutte le regole del mercato discografico. Contro ogni aspettativa, l'album ebbe un grande successo di critica e di pubblico, e segnò una svolta nella storia della musica italiana ed etnica in generale.[senza fonte]
De André decise di utilizzare il ligure non solo perché lingua a lui familiare, in quanto parlata nelle sue terre, ma anche perché riteneva che rappresentasse un misto di parole derivanti da lingue diverse, facendo perno sull'enorme malleabilità ed eterogeneità di questo idioma che, in diversi secoli di commerci, scambi e viaggi internazionali di cui il popolo ligure è stato protagonista, si è arricchito di numerose parole provenienti da altre lingue (greco, arabo, spagnolo, francese, inglese ed altre)[16].
Il disco è stato reinterpretato per intero nel 2004 da Mauro Pagani, che ne ha rinnovato gli arrangiamenti, creando l'album 2004 Creuza de mä[17]: oltre alle tracce originali, sono contenute anche Al Fair, introduzione vocalizzata nello stile dei canti sacri della Turchia, Quantas Sabedes, Mégu Megùn (già incisa da De André su Le nuvole) e Neutte, ispirata dal poeta greco Alcmane.
Titolo
Il titolo dell'album e della canzone principale fa riferimento alla crêuza, termine che in genovese indica una stradina collinare, spesso sterrata o mattonata, in pendenza, delimitata da mura, e che porta in piccoli borghi, sia marinareschi che dell'immediato entroterra.
In questo caso però l'espressione crêuza di mare si riferisce poeticamente ed in maniera allegorica ad un fenomeno meteorologico del mare altrimenti calmo che, sottoposto a refoli e vortici di vento, assume striature argentate o scure, simili a fantastiche strade da percorrere come vie, crêuze de mä appunto, per intraprendere dei viaggi, reali o ideali.
Nell'edizione rimasterizzata del 2014 la grafia utilizzata è Crêuza de mä, ma in quelle successive è ritornata la grafia Creuza de mä, per esempio nel 2016[18], nel 2017[19] e in quella limitata e numerata del 2018[20]
Le canzoni
Creuza de mä
«Umbre de muri, muri de mainæ / dunde ne vegnî, duve l'é ch'anæ?»
(F. De André - M. Pagani, da Creuza de mä)
Creuza de mä (questa è la grafia riportata sia nella copertina[1] sia nell'interno, dove vi è il testo del brano[1]; il titolo depositato in SIAE risulta essere invece Creusa de ma[21]) è la canzone d'apertura e dà il titolo all'album.
Come già accennato, la locuzione ligure crêuza de mä, nel genovesato, definisce un viottolo o mulattiera, talvolta fatto a scalinata, che abitualmente delimita i confini di proprietà privata e collega (come del resto fa la maggior parte delle strade in Liguria) l'entroterra con il mare. La traduzione letterale è quindi "viottolo di mare" o, utilizzando un ligurismo, "crosa di mare".
Il testo parla dei marinai che, tornati dal mare, poeticamente descritto come un posto dove la Luna si mostra nuda (cioè non ombreggiata da colline, piante o case) e dove la notte ha puntato il coltello alla gola, vanno a mangiare, in una taverna, dall'Andrea, alla fontana dei colombi nella casa di pietra, e pensano a chi vi potrebbero trovare: gente di Lugano poco raccomandabile (cioè contrabbandierisvizzeri) e ragazze di buona famiglia.
Il brano è incentrato sulle figure dei marinai e sulle loro vite da eterni viaggiatori, descrivendoli quasi come estranei in occasione di un ritorno notturno a riva.
De André parla delle loro sensazioni, narra le esperienze provate sulla loro pelle, la crudezza d'essere in balìa reale degli elementi; affiora poi una ostentata e scherzosa diffidenza, che si nota nell'assortimento dei cibi immaginati, accettabili e normali (o quasi, per un vero marinaio), contrapposti ad altri, come le cervella di agnello o il pasticcio in agrodolce di "lepre dei coppi" (il gatto, spacciato per una sorta di coniglio), decisamente e volutamente non accettabili, citati evidentemente per fare ironia sulla affidabilità e saldezza dell'Andrea (riguardo al quale viene sottolineato che non è un marinaio) e, forse, di tutto un mondo a cui sanno di non appartenere.
"E 'nt' a barca du vin ghe navighiemu 'nsc'i scheuggi" (E nella barca del vino navigheremo [anche] sugli scogli) "finché u matin... bacan d'a corda marsa d'aegua e de sä" (finché il mattino... padrone della corda marcia d'acqua e di sale), con quella corda finirà per legarci e riportarci al mare [al nostro destino] lungo una crêuza de ma.
Per quanto riguarda la struttura musicale, il brano segue un tempo di 4/4 per le strofe che cambia a 5/4 e 6/4 nei ritornelli e negli intermezzi strumentali.
Nell'agosto 2020 è stata realizzata una nuova versione del brano, cantata da numerosi interpreti italiani, su iniziativa di Dori Ghezzi, vedova di De André (scomparso nel 1999), appositamente per la cerimonia di inaugurazione, a Genova, del viadotto autostradale Genova San Giorgio[22], costruito in sostituzione del precedente viadotto Polcevera, crollato due anni prima provocando 43 vittime.
Jamin-a
Tra le canzoni più cariche di sensualità di Fabrizio De André, è un vero e proprio inno o elogio all'erotismo, impersonato dalla "lupa di pelle scura" Jamin-a, donna del porto desiderio amoroso dei marinai, capace di fare l'amore in modo travolgente e quasi insaziabile.
«... Jamin-a non è un sogno, ma piuttosto la speranza di una tregua. Una tregua di fronte a un possibile mare forza otto, o addirittura ad un naufragio. Voglio dire che Jamin-a è un'ipotesi di avventura positiva che in un angolo della fantasia del navigante trova sempre e comunque spazio e rifugio. Jamin-a è la compagna di un viaggio erotico, che ogni marinaio spera o meglio pretende di incontrare in ogni posto, dopo le pericolose bordate subite per colpa di un mare nemico o di un comandante malaccorto»
Il brano è il canto di dolore di un padre di fronte alla morte violenta, a causa della guerra, del proprio giovane figlio, travolto da un carro armato.
"Sidún" è in genovese la città di Sidone, in Libano, teatro, all'epoca della stesura del disco, di ripetuti massacri durante la guerra civile che sconvolse il paese (campo di battaglia di Siria e Israele) dal 13 aprile 1975 fino al 1990. A farne le spese fu in massima parte la popolazione civile, soprattutto i numerosissimi rifugiati palestinesi.
«Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti da latte, ancora poco prima labbra grosse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostituibile ricchezza. La piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo, bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.»
La canzone fa riferimento alla vicenda storica del visconte Scipione Cicala, o Cigala (Çigä in genovese), appartenente ad una nobile famiglia genovese, che fu catturato dai Mori durante uno scontro navale e in seguito, per aver salvato la vita al sultano, convertendosi all'islam e ripudiando le proprie origini, diventò prima fiduciario del sultano e poi Gran Visir, con il nome di Sinàn Capudàn Pascià. Il personaggio, pur vedendo tutta la sua vita trasformata, non cambia intimamente e, diventato importante dignitario, afferma che di fatto non molto è mutato nel flusso della sua vita, che continua erratica ed opportunista (evidenziata dall'allegoria del pesce che quando le cose vanno bene sta a galla e quando vanno male si nasconde sul fondo), con la sola variante di proseguire giastemàndo Momâ òu pòsto do Segnô ("bestemmiando Maometto al posto del Signore").
'A pittima
'A pittima[1] rappresentava, nell'antica Genova, la persona a cui i privati cittadini si rivolgevano per esigere i crediti dai debitori insolventi; il protagonista del brano è proprio una persona che svolge tale attività. Il compito della pittima era di convincere, con metodi più o meno leciti, i debitori a pagare; ancora oggi in Liguria il termine dialettale pittima viene usato per indicare una persona insistente e appiccicosa.[12]
«Il personaggio è la risultante di un'emarginazione sociale, almeno come io lo descrivo, dovuta principalmente alle sue carenze fisiche. "Cosa ci posso fare se non ho le braccia per fare il marinaio, se ho il torace largo un dito, giusto per nascondermi con il vestito dietro ad un filo": questo è il lamento di chi è stato costretto da una natura tutt'altro che benevola a scegliersi, per sopravvivere, un mestiere sicuramente impopolare. [...] Così ho immaginato la mia pittima, come un uccello che non riesce ad aprire le ali, ed è destinato a nutrirsi dei rifiuti dei volatili da cortile.»
«Fabrizio: Lì è stata la forza di Pagani: "Adesso scrivo un pezzo alla De André", e ti esce fuori con "Â duménega". Mauro: Io ho fatto "A dumenega" avvertendo Fabrizio che la gente avrebbe detto: "Eh, questo è il Fabrizio di una volta!"»
(Fabrizio De André e Mauro Pagani, riguardo alla musica di "Â duménega"[25])
Il brano racconta in maniera ironica il "rito" della passeggiata che un tempo, nella città di Genova, era concessa ogni domenica alle prostitute, per tutta la settimana relegate a lavorare in un quartiere della città. De André riporta le reazioni al passaggio delle prostitute di vari cittadini, tutti accomunati dall'incoerenza e dal finto moralismo: da chi di domenica grida loro qualsiasi epiteto sconcio e invece durante la settimana le frequenta, al direttore del porto, che è felice perché tutto quel ben di Dio a passeggio porta tanti soldi nelle casse del Comune, finanziando la costruzione di un nuovo molo (sembrava infatti che il Comune di Genova, con i ricavi degli appalti delle case di tolleranza, riuscisse a coprire per intero gli annuali lavori portuali[12]), ma le insulta comunque "per coerenza", al rozzo bigotto che, per legge di contrappasso, sbraita contro le prostitute e sembra essere l'unico a non accorgersi che fra di loro c'è anche sua moglie.
Da a me riva
Il brano chiude idealmente il discorso sull'eterno viaggiare dei marinai aperto ad inizio album con "Crêuza de mä". Il protagonista è un marinaio al momento della partenza per un nuovo viaggio, che saluta con un triste canto d'addio l'innamorata che lo guarda dal molo e la sua città, Genova.
«Quando un navigante abbandona la banchina del porto della città in cui vive arriva il momento del distacco dalla sicurezza, dalla certezza, sotto specie magari di una moglie, custode del talamo nuziale, agitante un fazzoletto chiaro e lacrimato dalla riva; il distacco dal pezzetto di giardino, dall'albero del limone, e, se il navigante parte da Genova, sicuramente dal vaso di basilico piantato lì sul balcone [...] . È un momento sottilmente drammatico, un momento che si vive come accecati da un controsole, e che suscita la nostalgia nel momento stesso in cui l'imbarcato fa l'inventario del suo baule da marinaio preparatogli dalla moglie: tre camicie di velluto, due coperte, il mandolino e un calamaio di legno duro [...] . [Della] compagna della vita resta al marinaio soltanto una fotografia di quando lei era ragazza, una fotografia sbiadita in fondo ad un berretto nero, per poter baciare ancora Genova sull'immagine di una bocca che io definisco "in naftalina".»
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Il cantautore Zucchero Fornaciari ha inserito un verso di Jamín-a tradotto in italiano nel suo brano Vedo nero del 2010 ("dove c'è pelo c'è amore").
Note
Esplicative
^Mauro Pagani è stato principalmente l'ideatore, curatore ed esecutore delle musiche. Per quanto riguarda i diritti SIAE, l'album è intestato a entrambi gli autori. Per maggiori informazioni si veda, per esempio, il volume Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André. a cura di Riccardo Bertoncelli.
^Giancarlo Susanna. Un viaggio nel sole e nell'azzurro del mediterraneo - Intervista a Fabrizio De André e Mauro Pagani. Fare Musica, 1º giugno 1984 [1]Archiviato il 27 settembre 2007 in Internet Archive.