La bellezza del diavolo (La Beauté du diable) è un film del 1950 diretto da René Clair.
La pellicola, di genere fantastico e drammatico, è una tragicommedia dal significato allegorico, ambientata all'inizio del XIX secolo, parla di un alchimista anziano, Henri Faust, a cui viene data la possibilità di essere eternamente giovane dal diavolo Mefistofele.
Trama
Al termine di un'esistenza dedicata allo studio e alla ricerca scientifica, il professor Faust è tormentato dai rimpianti. Mefistofele gli propone un patto: vendere l'anima in cambio della giovinezza e della ricchezza. Faust non accetta e fra i due inizia una partita in cui ciascuno dei giocatori vuole avere la vittoria.
Il diavolo trasforma Faust nel giovane Enrico e, come in un sogno, gli fa godere i piaceri della giovinezza, della ricchezza e del potere.
Se firmerà il patto che gli viene sottoposto, Faust vedrà il sogno tramutarsi in realtà. Faust firma e acquista un potere tale da costringere il diavolo a rivelargli il futuro: vedendo, riflesse in uno specchio, le conseguenze catastrofiche della potenza e della ricchezza malamente acquistate, Faust impone al diavolo di disfare quel che ha fatto.
Produzione
Soggetto
Dichiara lo stesso Clair:"L'idea era quella di dare alla leggenda di Faust una struttura drammatica altrettanto solida di quella di un buon romanzo giallo".[2]
Riprese
Il film fu girato a Roma nel novembre 1949 negli stabilimenti di Cinecittà.
Questa sezione sull'argomento film fantastici è ancora vuota. Aiutaci a scriverla!
Critica
«[...] La sorte dell'uomo, nella grande sequenza del magico specchio, è una domanda che tutti si fanno; e con quelle plausibili risposte. In una mirabile scenica chiarezza questo Faust ancora una volta impersona il desiderio della conoscenza e del potere. Ha dietro di sé gli alchimisti, lontani, nelle loro tenebre; ma arditamente si spinge verso i novelli alchimisti d'oggi, che potranno piombare l'uomo in ben altre tenebre. È questo il brivido che talvolta ci dà il Faust di Clair; e non è un piccolo brivido, tra le eleganze squisite di questo maestro della regia, e le agilità iridescenti della sua ironia, che vorrebbe indurvi a credere soltanto in un gioco. Da questa "leggenda" è lontana ogni e qualsiasi nordica bruma. L'essere stata composta sotto il cielo di Roma ha forse contribuito a darle più di un riflesso mediterraneo. Da questo le deriva forse anche un eccessivo scrupolo di misura che fa rimpiangere, dopo due intense ore di proiezione, che il film non abbia avuto la possibilità di esprimersi per una altra mezz'ora ancora. Forse, così, sarebbe stato tutto impeccabile; come lo è questo quadro scenico, tutto un piccolo mondo. Questo primo ottocento è più da figurino che da stampa; ora qualcosa di indefinito ci avverte che siamo su di un palcoscenico, ora in un teatro di posa; è come l'artificio nell'artificio, ottenuto con scenografie un po' tronfie, accademicamente impeccabili, e maliziosamente poi rivelate da un'illuminazione sbarazzina, per lo più radente, che dà a ciascuno di questi colonnati la rigida gonfiezza del cartone, la vacua sonorità del gesso. È il teatrino di Clair. Che domina gli attori da maestro [...], sagacemente inserisce l'ottimo commento musicale di Roman Vlad; e ha voluto ambientare questo suo Faust in un mondo ottocentesco perché l'ottocento era il secolo del progresso, illimitato, per il benessere sempre maggiore dell'umanità; mentre oggi, nel mezzo di questo feroce novecento, le speranze di quel progresso, di quel benessere, sembrano disperdersi nella visione dei "funghi" apocalittici di bombe atomiche. È un'altra voce che si leva, trepida e nitida, a presagire, ad ammonire. Le labbra che la pronunciano sono sorridenti; ma lo sguardo è fisso. E tutto ciò ci viene da un film. Non è poco, per il film.»
«[...] Clair, il surrealista, il satirico, l'umorista, l'uomo e l'artista della Francia borghese del XX secolo ha conferito allo schema degli avvenimenti le vibrazioni e l'interesse che potevano derivare dal suo talento e dalla sua tipica formazione? Certamente sì, a parer nostro. Ma debolmente, senza slancio. Con la preoccupazione di essere perspicuo, corrivo: sempre vicino al gusto corrente del pubblico, seguendolo e non trascinandolo. [...] La bellezza del diavolo come spettacolo risulta pieno di gradevolezza, di gusto, di misura e d'intelligenza. Un film che ognuno vede e segue volentieri. Che fa molto onore alla ditta produttrice ed ai mezzi concessi da essa e forniti dai nostri stabilimenti con perfettezza tale che la fattura del film nulla ha da invidiare a quella delle più curate produzioni americane. E dobbiamo aggiungere da ultimo che la recitazione ci è parsa impeccabile da parte di tutti il complesso, dal Ninchi allo Stoppa, dal Carminati a Simone Valère e a Nicole Bernard, e indubbiamente superlativa per quello che concerne i protagonisti: Michel Simon e Gerard Philippe. Il primo [...] ci ha offerto nella parte di Faust-Mefistofele un saggio delle sue possibilità da collocarlo sul piano dei più indimenticabili artefici dell'arte scenica.»
«[...] Clair e il drammaturgo Salacrou hanno lavorato con intelligenza e mestiere sopraffini, sfoderando una sceneggiatura che è come un fuoco di artificio, un raffinato gioco di bussolotti. [...] Gioco intelligente, ma gioco, e null'altro che gioco. Tutto quello che di umano poteva esservi nel vecchio Clair che descriveva a mezze tinte una gaia e popolate Parigi, è qui scomparso. [...] E questi personaggi che ogni tanto escono dal gioco per darsi a riflessioni moralistiche e per enunciare sentenze piuttosto banali, non regalano certo nulla di nuovo a nessuno. «La bellezza del diavolo» si vale, per ottenere il successo, della ottima interpretazione della coppia Simon-Philipe, che marciano di conserva con grande disinvoltura. Molto a posto in parti di secondo piano sono Carlo Ninchi e Paolo Stoppa. Il commento musicale di Roman Vlad è aderente e brioso. Questo è tutto: ma è certo che da René Clair avremmo voluto un passo avanti e non una piroetta.»
«[...] Clair sconta [...] l'errore di aver dato una interpretazione freddamente razionale alla leggenda faustiana. Neppure un tema come questo finisce per imporre - al contrario di quanto crede il regista - il proprio stile a coloro che ardiscono accostarvisi. Questa convinzione poteva essere, per Clair, un alibi o una specie di sicurezza fatta apposta per tranquillizzarlo sui gravi rischi che correva. Ma si è ingannato, giacché è stato il suo stile (o la sua mancanza di stile nell'ambizioso confronto con questa materia) ad imporsi sul tema, come era del resto prevedibile e necessario. La «logicizzazione» della leggenda non ha permesso a Clair di creare un nuovo Faust, un Faust moderno(che il film sia ambientato in un immaginario staterello italiano agli inizi dell'Ottocento non ha alcun peso e il regista è il primo, sotto tale punto di vista, a non attribuirgliene) o, semmai, gli ha permesso di crearne uno assai piccolo, quasi insignificante. [...] Razionalizzata al massimo, [...] la leggenda è ridotta a modeste proporzioni, ne esce come immiserita e involgarita. Con Marloe e con Goethe aveva assunto un respiro universale. Le è stato tolto «quel» respiro, senza sostituirgliene un altro. Le si è sostituito invece un piccolo mondo banalmente antiscientifico, in cui risuona la protesta di un uomo intimorito dalle cose troppo grandi. Faust trema dinanzi al sapere, trema per un'ansia apparentemente nobile ma sostanzialmente meschina. Per fornire, a quest'ansia, un sostegno filosofico, Salacrou è ricorso a qualche frammenti di esistenzialismo, e non è stato nemmeno abbastanza accorto da non travisarlo. [...] La bellezza del diavolo non segna l'inizio di un nuovo ciclo creativo, ma di una vera e propria crisi, più grave di quella del periodo americano. La strada ora imboccata da Clair è un vicolo scuro senza uscite: vi domina l'intellettualismo arido e privo di vibrazioni umane, che si risolve in giochi d'artificio, in sofismi e contraddizioni, in espedienti umoristici troppo calcolati per essere almeno piacevoli. Non ci stupisce sentire in questo film la musica di Roman Vlad, che è di sapiente fattura cerebrale poiché altra musica non si potrebbe immaginare più connaturata alla «logica» della leggenda clariana. Né ci stupisce la gonfiezza un poco presuntuosa e di cattivo gusto della scenografia, perché questa è un'altra prova dell'incapacità del regista a fondere sul piano estetico gli elementi della composizione, e della sua necessità di agire razionalmente, per puro calcolo mentale, nei vari settori in cui l'opera si articola, onde estrarne il massimo di efficacia. E il calcolo, naturalmente, doveva uscire errato. Considerazioni analoghe andrebbero fatte per le acrobazie luministiche e gli «effetti magici» che accompagnano molta parte dell'azione di Mefisto, ma giunti a questo punto è francamente inutile insistere. L'analisi della Bellezza del diavolo non ne guadagnerebbe più nulla.»
«Il difetto maggiore del film è quello di essersi lasciato imprigionare in una tale rete di rimandi, riferimenti filosofici, e meditazioni trascendentali che ha finito per diventare un vero e proprio filtro opaco rispetto alla struttura reale del film.»