Componente della Commissione speciale per l'esame delle leggi elettorali
Componente della Commissione speciale per riferire sul disegno di legge che modifica il decreto legislativo 10 marzo 1946, per la elezione della Camera dei deputati
Componente della Commissione speciale per riferire sul disegno di legge riguardante norme per la compilazione delle liste elettorali nella provincia di Gorizia
Componente della Commissione speciale per l'esame del disegno di legge che detta norme per la limitazione temporanea del diritto di voto ai capi responsabili del regime fascista
Componente della I Commissione (Affari Costituzionali)
Componente della Commissione speciale per l'esame del disegno di legge n. 4797 “Conversione in legge del decreto-legge 22 gennaio 1968, n. 12 concernente provvidenze a favore delle popolazioni dei Comuni della Sicilia colpiti dai terremoti del gennaio 1968”
Era primo dei sette figli del marinaio Santo Mattarella (Castellammare del Golfo, 10 luglio 1878) e di Caterina Di Falco. La famiglia Mattarella era in passato dedita ad attività marinare e proveniva dal vicino comune di Alcamo, dal quale il capostipite Giacomo Mattarella si trasferì a Castellammare del Golfo sposando Rosa Pagasi nella prima metà del XVIII secolo e dando origine alla discendenza.[1]
Nel luglio 1945, con De Gasperi segretario nazionale, divenne vice segretario nazionale della Democrazia Cristiana, insieme ad Attilio Piccioni e a Giuseppe Dossetti. Dal settembre 1945 al giugno 1946 fece parte della Consulta nazionale[8].
Nel quinto governo De Gasperi (1948) fu nominato sottosegretario ai trasporti, carica che mantenne anche nel sesto e settimo degli esecutivi guidati dallo statista trentino.
Nel successivo governo Moro Mattarella non fu ministro per motivi di equilibrio tra le correnti democristiane, come affermato da Moro in una lettera con cui ringraziava Mattarella per il lavoro svolto al governo. Mattarella rientrò nella direzione nazionale della DC.
Nel 1943 fu il primo a entrare in contatto epistolare con don Luigi Sturzo, ancora esule negli Stati Uniti d'America. In una lettera datata 25 maggio 1944 manifestava a Sturzo l'allarme per l'azione del separatismo siciliano, esprimendosi in questi termini: «È comunque un movimento che occorre seguire e vigilare continuamente, anche per l'elemento poco buono da cui è circondato, la mafia, riportata dai feudatari separatisti all'onore della ribalta politica.»[11] In altra lettera del 29 giugno 1946, poco dopo il voto per l'Assemblea Costituente, Bernardo Mattarella così scriveva a Luigi Sturzo: «La lotta elettorale è stata dura e faticosa, ma ci ha dato anche il grande risultato del pieno fallimento della mafia... I separatisti, che ne dividevano con i liberali i favori, sono stati miseramente sconfitti».[12]
Il 3 giugno 1944 su Popolo e Libertà, il giornale che dirigeva, Bernardo Mattarella pubblicò un articolo in cui attaccava il leader dei separatisti, accusandolo di avere l'appoggio della mafia e scrivendo: «Ha sulla coscienza la triste responsabilità di avere riunito attorno a sé, cercando di ripotenziarla, l'organizzazione più pericolosa e sopraffattrice che abbia afflitto, per lunghi anni, le nostre contrade.»
Tuttavia nella fase iniziale del secondo dopoguerra era stato sospettato di essere «...tra i referenti nel rapporto tra la DC e la mafia».[13] Di questo nel 1992 venne accusato anche dall'ex ministro della giustiziaClaudio Martelli: "Bernardo Mattarella secondo gli atti della Commissione antimafia e secondo Pio La Torre (1976), fu il leader politico che traghettò la mafia siciliana dal fascismo, dalla monarchia e dal separatismo, verso la DC".[14] Secondo lo storico Giuseppe Casarrubea Mattarella era ritenuto vicino al boss di Alcamo Vincenzo Rimi,[15] considerato in quegli anni al vertice di Cosa nostra.
Al processo per la strage di Portella della Ginestra, Mattarella fu accusato da Gaspare Pisciotta di essere implicato nell'eccidio.[16] Durante il processo, Pisciotta affermò che "Si svolsero dei colloqui tra Giuliano e gli on. Marchesano, Alliata e Bernardo Mattarella. Io ho assistito ai colloqui che avvennero tra costoro e Giuliano e fu precisamente da questi che Giuliano fu mandato a sparare a Portella della Ginestra" e che in contrada Parrini "vi fu un convegno fra Giuliano, Mattarella e Cusumano, i quali due ultimi dicevano che dovevano recarsi a Roma per trattare della questione dell'amnistia" e che "Mattarella e il Cusumano vennero a Roma ma gli si oppose alla concessione dell'amnistia il ministro dell'interno Scelba e riferirono che Scelba aveva detto che non trattava più con i banditi".[17]
La sentenza della Corte di assise di Viterbo, che concluse quel processo, dichiarò infondate le accuse di Pisciotta, componente della banda di Salvatore Giuliano e tra gli autori della strage. Anche il pubblico ministero nella sua requisitoria al processo di Viterbo[18] aveva definito inaffidabile Pisciotta, che aveva fornito nove diverse versioni della strage e inattendibili le sue accuse contro Mario Scelba e Bernardo Mattarella. Tali le giudicò anche l'Ufficio istruzione presso la Corte di Appello di Palermo, che, valutando una denuncia presentata dal deputato del PCIGiuseppe Montalbano contro tre deputati monarchici, escluse coinvolgimenti di Scelba e Mattarella.
Del resto, che l'atteggiamento di Pisciotta facesse parte di una manovra organizzata per depistare, era stato dichiarato nel corso del processo dalla stessa madre di Giuliano e da alcuni componenti della banda[19] e fu confermato, davanti alla Commissione parlamentare antimafia, sia da questi ultimi nel marzo 1966 sia, nel giugno 1972, dai due membri della banda che avevano seguito Pisciotta in quella manovra[20].
È inoltre falsa l'informazione, contenuta in un libro di memorie del mafioso italoamericanoJoe Bonanno, che Mattarella si trovasse tra coloro che lo accolsero a Roma quando questi arrivò all'aeroporto di Fiumicino nel 1957. Nel libro, invero piuttosto romanzato, come si legge nella presentazione[21] si narra del viaggio che Bonanno fece in Italia, nel settembre 1957, al seguito di Fortune Pope, figlio di Generoso Pope e direttore del giornale Il progresso italo-americano. Ma, come risulta da quello stesso giornale,[22] i due arrivarono a Roma il 13 settembre di quell'anno e Bernardo Mattarella non era presente: è possibile verificarlo sia sul giornale di Pope, sia su giornali italiani. Del resto, quello stesso giorno, Mattarella, allora ministro delle poste, si trovava in veste ufficiale in Sicilia per l'inaugurazione di un'opera pubblica.[23][24]
Nel 2008 il figlio Sergio e i nipoti Maria e Bernardo (figli di Piersanti), querelarono RTI e Taodue per danno d'immagine nei suoi confronti perché nella loro fiction Il capo dei capi veniva ritratto come un politico colluso con la mafia, amico di Vito Ciancimino e dell'imprenditore Caruso. Nell'ottobre 2013 i Mattarella ottennero per questo un risarcimento di 7.000 euro a testa.[25]
Querela e condanna di Danilo Dolci per diffamazione
Il sociologo e attivista Danilo Dolci, con un dossier (riprodotto nel libro Chi gioca solo del 1966) presentato nel 1965 durante una conferenza stampa seguita a un'audizione della Commissione antimafia, accusò di collusioni con la mafia Mattarella - allora ministro del Commercio con l'estero -, il sottosegretario alla Sanità Calogero Volpe, il senatore Girolamo Messeri ed altri notabili della Democrazia Cristiana. Mattarella e Volpe lo querelarono e dopo un tormentato percorso processuale durato sette anni Dolci fu condannato per diffamazione a due anni di reclusione, che non scontò per effetto dell'indulto approvato l'anno precedente.
Nella sentenza del Tribunale di Roma del 21 giugno 1967, la cui condanna fu successivamente confermata dalla Corte d'appello e dalla Corte di cassazione, si legge: «Mattarella ha espresso sempre in modo inequivoco la sua condanna del fenomeno mafioso...» e «...non è mai entrato in contatto con l'ambiente mafioso da lui invece apertamente e decisamente osteggiato nel corso di tutta la sua carriera politica».[26]
La sentenza del Tribunale di Roma proseguiva: «Ha in sostanza Mattarella portato a conoscenza del Tribunale, obiettivamente documentandolo, l'atteggiamento di insuperabile contrarietà alla mafia assunto e mantenuto nel corso di tutta la sua carriera politica. Nulla di quanto contenuto nel dossier che ha costituito la base del massiccio attacco nei riguardi di Mattarella ha trovato quindi conforto e riscontro sul piano della prova, dimostrandosi le dichiarazioni raccolte dagli imputati – Dolci e il suo collaboratore l'attivista Franco Alasia – nient'altro che il frutto di irresponsabili pettegolezzi, di malevoli dicerie se non addirittura di autentiche falsità. Basse, infondate insinuazioni, quindi, calunniose interpretazioni di fatti ed avvenimenti, interessate strumentalizzazioni di testimonianze che lungi dal fare la storia di un ambiente e di un personaggio, come incautamente asserito dal Dolci nel corso della conferenza stampa, possono al più favorire la peggiore confusione delle idee, intralciare se non addirittura fuorviare il corso degli accertamenti, condurre a infondati giudizi nei confronti di uomini e di cose».[27]
^T. Parlatore, L'eccidio di Portella della ginestra, requisitoria pronunziata al processo celebrato a Viterbo dinanzi alla Corte d'Assise, pp. 178-195 e 318-331
^Giornale di Sicilia, cronaca di Trapani, 14 settembre 1957
^All'episodio in questione faceva riferimento anche la prima edizione di John Dickie, Cosa nostra, Laterza, 2005. L'autore, riconoscendo poi la falsità dell'episodio, ha eliminato il riferimento nella seconda e nella terza edizione.
^Sentenza del Tribunale di Roma 21 giugno 1967 - confermata dalla Corte di Appello di Roma il 7 luglio 1972 e dalla Corte di Cassazione, Sezione VI, il 26 giugno 1973 - pubblicata su Il foro italiano 1968, pagine 342 e seguenti, passata in giudicato perché confermata dalla Corte d'Appello di Roma il 7 luglio 1972 e dalla sentenza della Corte di Cassazione, VI sezione, del 26 giugno 1973
^Sentenza Tribunale di Roma del 21 giugno 1967, pubblicata su Il Foro italiano 1968, pp. 342 e seguenti, confermata dalle sentenze della Corte d'Appello di Roma del 7 luglio 1972 e della Corte di Cassazione, VI sezione, del 26 giugno 1973