Il nazionalismo italiano è l'ideologia nazionalista che esalta l'identità storica, spirituale e territoriale degli italiani, sia su base naturalistica, sia per afflato volontaristico.[1]
Esso sostiene che gli italiani siano un popolo di cultura e lingua sostanzialmente omogenea, in quanto discendenti degli antichi romani che hanno abitato la penisola per secoli, in un periodo di unità storica dell'Italia. Il nazionalismo italiano ha storicamente aderito anche a teorie imperialistiche.[2] Le origini del nazionalismo italiano sono state spesso individuate nel Rinascimento.[3]
Oggi sopravvive in alcuni partiti di destra e, a livello culturale, come sentimento di generico patriottismo diffuso non in modo uniforme, stimolato talvolta da eventi di cronaca, politica o sport.[4]
Prima e dopo l'unità d'Italia, diversi movimenti legati alle identità territoriali (vedansi per esempio il sardismo, strutturatosi definitivamente già in occasione della "Fusione Perfetta" del 1848, e il sicilianismo, proiettatosi contro i Borbone e in seguito i Savoia) misero in discussione il piano della cosiddetta "piemontesizzazione" dello Stato guidato dal Regno di Sardegna, criticato anche da alcuni nazionalisti non monarchici.[6]
Lo sviluppo di differenti condizioni economiche, contribuenti alla definizione di un ampio divario fra un "Nord" altamente industrializzato e un "Sud" marcatamente agricolo, ha messo a dura prova la costruzione dell'attuale identità italiana.[7] Tale divario economico, negli anni ottanta, ha provocato il sorgere di movimenti quali il cosiddetto padanismo[8] e il neoborbonismo.
Storia
Medioevo
Il sentimento nazionale italiano cominciò a sorgere durante l'Alto Medioevo, alimentandosi soprattutto del ricordo dell'antica Roma e trovando nell'identità religiosa, rappresentata da una Chiesa cattolica erta a erede ideale delle istituzioni romane, un senso di comune appartenenza.[9]
Anche grazie a letterati ed intellettuali quali Dante, Petrarca e Boccaccio, che elevarono il volgare fiorentino a una posizione di prestigio,[10] l'Italia fu ispirazione ed oggetto di studio per poeti e letterati che, tessendone le lodi per la sua antica grandezza, ne deprecavano la contemporanea situazione e il suo destino futuro, fatto di discordie interne e di sottomissione allo "straniero".[11]
A Dante sarebbe stato, così, attribuito il ruolo di capostipite di un sentimento nazionale comune alla penisola, nonché di portavoce della necessità di un suo riscatto:
«L'Italia non fu fatta da re o capitani; essa fu la creatura di un poeta: Dante. [...] Non è un'esagerazione dire che egli fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele.»
Ispirato all'idea politica di Dante, anche il tribuno della plebe Cola di Rienzo proclamò l'esigenza di restituire all'Italia la gloria che le spettava, auspicandone l'unificazione sotto la guida di Roma capitale.[14]
Dal Rinascimento al XIX secolo
Abbandonata la speranza medievale di un'utopistica restaurazione imperiale, a partire dal Rinascimento l'Italia funzionò da forza trainante per una rinascita europea dello spirito classico e umanistico, ispirato all'antichità greco-romana, che investì la cultura, la filosofia, l'arte e la politica, come nella Firenze di Lorenzo de' Medici.[15]Niccolò Machiavelli, diplomatico e scrittore, ne Il Principe (1532), fece un appello al patriottismo italiano invitando i nobili italiani "pigliare l'Italia e liberarla dai barbari", cioè dalle potenze straniere che occupavano parte della penisola italiana, come Francia e Spagna.[16]
Successivamente, altri intellettuali che ripresero questo anelito furono Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, e Giacomo Leopardi.
Alcuni episodi antichi e medievali vennero idealizzati, ad esempio quelli legati alle imprese di Giulio Cesare, alla battaglia di Legnano o alla disfida di Barletta. La figura di Dante Alighieri venne presa ad esempio di padre dell'Italia e della lingua italiana moderna.
I sostenitori del nazionalismo italiano erano presenti in quasi tutto lo spettro politico, dai conservatori ai liberali.[19] La liberalizzazione delle leggi sulla stampa in Piemonte permise alla propaganda nazionalista di prosperare.[17]
Dopo le rivoluzioni del 1848, nacque nel 1857 la Società Nazionale Italiana ad opera del veneto Daniele Manin, del siciliano Giuseppe La Farina e del milanese Giorgio Pallavicino Trivulzio.[17] La Società Nazionale venne creata per promuovere e diffondere il nazionalismo tra i politici moderati; in Piemonte raccolse fondi, tenne incontri pubblici e stampò molti quotidiani.[17] La Società Nazionale avrebbe contribuito a stabilire una base per il nazionalismo italiano nella classe media.[17] Nel 1860, il nazionalismo era diffuso anche nei circoli liberali dominanti in Italia e conquistò così il sostegno della borghesia, determinante per l'unione del Piemonte e della Lombardia.[20]
Dalla presa di Roma al primo novecento
Dopo che nel 1870 venne completata l'unità d'Italia, con la presa di Roma e la fine dello Stato Pontificio, il governo italiano dovette affrontare la paralisi politica e le tensioni interne, con conseguente ricorso a una politica coloniale per distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica e arginare il malcontento generale.[21] L'Italia riuscì a colonizzare le coste dell'Africa orientale, cioè l'Eritrea e Somalia (oltre alla piccola Concessione italiana di Tientsin, in Cina), ma venne arginata in Etiopia, con 15.000 italiani che morirono nella guerra d'Abissinia, provocando il conseguente ritiro del Regio esercito, la caduta del governo di Francesco Crispi e la fine della prima avventura coloniale.[21] Nel 1911-1912 l'Italia dichiarò guerra alla Turchia, ottenendo la Libia e le isole del Dodecaneso italiano.[21] Tuttavia, questi tentativi di ottenere il sostegno popolare di massa non riuscirono, e alcune ribellioni e proteste violente, come avvenuto già con i moti del 1898 divenne così intenso che molti osservatori ritenevano che il Regno d'Italia non sarebbe sopravvissuto.[21] Venne concesso anche il suffragio universale maschile, ma lo stato liberale era ormai in crisi, alla vigilia della prima guerra mondiale.
Nel 1910 Corradini diede vita all'Associazione Nazionalista Italiana, che raccolse le adesioni di numerosi esponenti politici e intellettuali, tra i quali Giovanni Pascoli e Giovanni Verga. L'ANI sottolineava la rilevanza dell'eroismo, il sacrificio dell'individualismo, la necessità di disciplina nella società, la maestosità e la potenza di Roma antica, e l'amore del rischio e del pericolo. Essa, inoltre, si dichiarò a favore del protezionismo industriale, ottenendo in tal modo il sostegno di larghi settori della grande industria.[22] L'ANI aveva séguito soprattutto tra gli studenti e gli intellettuali.[21]
Allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914, l'Italia inizialmente mantenne la neutralità, nonostante la sua alleanza ufficiale ("Triplice Alleanza") con la Germania e l'Austria-Ungheria dal 1882 sulla base del fatto che i due imperi stavano conducendo una guerra di aggressione.[21] Nel 1915, spinta popolarmente verso l'interventismo dal movimento irredentista di Cesare Battisti (nato in territorio austriaco, e per questo catturato e impiccato dagli austriaci durante il conflitto), e da D'Annunzio, l'Italia entrò in guerra a fianco degli inglesi e dei francesi, nella Triplice Intesa, contro l'Austria-Ungheria e la Germania.
Con l'adesione degli Stati Uniti e la defezione della Russia, la coalizione divenne nota come "alleati", in contrapposizione agli Imperi centrali.[21] Dopo la disfatta di Caporetto, il sentimento nazionalista crebbe in tutta Italia, per il senso diffuso della "patria in pericolo". Questo, però, non valse a coinvolgere la popolazione, che in larga parte restò estranea alle ragioni della guerra.[22]
L'orgoglio nazionalista divenne importante in Italia anche dopo la fine delle ostilità nel novembre 1918, con la vittoria dell'Italia e delle forze alleate contro l'Austria-Ungheria e l'annessione dei territori irredenti, come il Trentino - Alto Adige, l'Istria e la Venezia Giulia, in quella che i nazionalisti presentarono come la Quarta guerra d'indipendenza italiana.[23] Il popolo di Roma scese in piazza per celebrare la vittoria.[23]
Dalla vittoria "mutilata" al Dannunzianesimo fiumano
Le richieste italiane nel piano di pace di Parigi del 1919, quale erano state promesse nel 1915, non furono pienamente raggiunte, in quanto all'Italia vennero concesse si le terre irredente, ma da esse furono escluse la città di Fiume e la Dalmazia.[21]
In particolare, i nazionalisti italiani erano infuriati per la negazione del diritto di annettere Fiume, sostenendo che avrebbe violato i principi dell'autodeterminazione dei popoli di Woodrow Wilson.[24] Molti scontenti si raccolsero intorno all'eroe di guerra D'Annunzio, che rispose mobilitando duemila veterani, i legionari di Fiume, che presero la città con la forza; questa azione venne accolta nella condanna internazionale, ma venne sostenuto dalla maggioranza degli italiani, in nome della giustizia contro la "vittoria mutilata".[24] Anche se il governo rivoluzionario e nazionalista di D'Annunzio, la Reggenza Italiana del Carnaro, fu costretto a cedere per l'intervento dell'esercito italiano, l'Italia annetté lo Stato Libero di Fiume, creato dalle potenze alleate dopo la fine del periodo dannunziano, pochi anni dopo.[24]
Il fascismo, la seconda guerra mondiale ed il secondo dopoguerra
Mussolini cercò di costruire relazioni strette con la Germania e il Regno Unito, mentre mostrò ostilità verso la Francia e la Jugoslavia. Con la guerra d'Etiopia, l'annessione dell'Albania, e alcune campagne a fianco della Germania nazista, dopo l'alleanza con essa e il Giappone, nell'ambito delle Potenze dell'Asse, l'Italia occupò nel 1940-41 un territorio considerevole (3.965.030,5 km², una superficie superiore a quello dell'antico Impero romano d'Occidente, ultimo nucleo statale in Italia della grande potenza romana a cui il nazionalismo mussoliniano si richiamava idealmente nella propaganda), anche se per pochissimo, consentendo intanto a Mussolini di proclamare la rinascita dell'Impero sui "colli fatali di Roma" (1936), con a capo Vittorio Emanuele III, "Re d'Italia e di Albania, Imperatore d'Etiopia".[25]
La sconfitta dell'Italia, in seguito all'armistizio con gli "alleati" nel 1943, la fuga del re da Roma, la divisione temporanea tra occupanti nazisti, alleati con i fascisti al nord, e angloamericani, alleati con i monarchici al sud, posero fine di fatto all'impero coloniale italiano ben prima del 1945 (sancendo inoltre la perdita temporanea di Trieste, a quella definitiva di alcuni territori, come l'Istria e le isole dalmate).
Negli ultimi anni di guerra, si dichiaravano patrioti sia i fascisti della Repubblica sociale italiana, sia parte del movimento della Resistenza italiana, precisamente i partigiani che si ispiravano al nazionalismo moderato, detto anche nazionalismo democratico.[26] Nel 1946, anche la monarchia decadde e l'Italia divenne una Repubblica. La Repubblica italiana conservò solo la Somalia in amministrazione fiduciaria, dal 1950 fino al 1960, ed entrò nelle Nazioni unite e nella NATO. Alcuni nazionalisti videro nell'adesione, o più precisamente nel posizionamento sul suolo italiano di alcune basi americane in funzione antisovietica (molte delle quali gestite da statunitensi e alcune con la presenza di armi nucleari condivise), una colonizzazione militare implicita della penisola.
La Costituzione della Repubblica italiana del 1948 "ripudia la guerra" (art. 11), ma considera "sacro dovere del cittadino" la difesa della Patria (art. 52). La cultura della prima Repubblica in questo ripudio si era però spinta oltre: "fino a considerare con sospetto (unico caso in Europa) lo stesso riferimento allo Stato e alla difesa degli interessi nazionali".[27] Le espressioni "nazionalismo costituzionale" e "patriottismo costituzionale"[28] furono tuttavia usate dal secondo dopoguerra per indicare un sentimento nazionale ma di natura fortemente antifascista.[29]
Successivi sviluppi
Il nazionalismo nei giovani del dopoguerra emerse con la questione dell'italianità di Trieste negli anni '50, a seguito anche dei massacri delle foibe e dell'esodo giuliano-dalmata, ed in particolare dopo la cosiddetta rivolta di Trieste del 1953. Nel 1954, in maniera parziale, ed ufficialmente nel 1975, con il trattato di Osimo, Trieste ed una piccola parte di Venezia Giulia vennero restituite allo stato italiano.
Simili sentimenti patriottici sono talora diffusi nella popolazione e nei partiti politici, come dimostra la partecipazione popolare alla celebrazione dei 150 anni dell'Unità d'Italia nel 2011, così come ci sono movimenti patriottici di area democratica.
In certi momenti storici si sono verificati episodi di riemersione di un certo nazionalismo, a volte in seguito ad episodi di vera o presunta violazione della sovranità nazionale (in particolare da parte della NATO, mentre altre volte ci furono manifestazioni di sostegno proprio verso la NATO stessa, come da parte di chi era d'accordo con la guerra in Iraq nel 2003): un esempio fu in occasione della crisi di Sigonella (1985), durante il governo di Bettino Craxi.[30][31]
Il Presidente della RepubblicaCarlo Azeglio Ciampi durante il suo settennato (1999-2006) si distinse per il tentativo di trasmettere agli italiani un sentimento patriottico e nazionale (accanto all'appartenenza europea), derivato dalle imprese del Risorgimento e della Resistenza, manifestato visivamente nella valorizzazione dell'Inno di Mameli e della bandiera tricolore.[32]
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^«Già nella prima metà del Trecento essa aveva dato ciò che le altre nazioni non avevano dato ancora... una lingua raffinata, una grande poesia... una prosa letteraria...» da Umberto Cerroni, L'identità civile degli italiani, Lecce, Piero Manni, 1996, pag. 24.
^ab Matteo Di Gesù, Dante e l'identità italiana, su doppiozero.com. URL consultato il 22 giugno 2019 (archiviato dall'url originale il 28 luglio 2021).
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^Reynolds Mathewson Salerno. Crocevia fondamentale: origini mediterranee della seconda guerra mondiale, 1935-1940. Ithaca, New York, USA: Cornell University Press, 2002. Pp. 5.
^Alberto Benzoni, Altruismo e opportunismo, Mondoperaio, n. 6-7/2016Archiviato il 13 ottobre 2016 in Internet Archive., p. 45, che prosegue: "Pure, tra i leader della prima Repubblica, qualcuno capace di capire e di vedere c'era: pensiamo ad Andreotti, incarnazione della Realpolitik in ogni circostanza e ad ogni livello; ed al Craxi che, a Sigonella e altrove, riscopre e ripropone coram populo la difesa degli interessi nazionali e il ruolo politico della “diversità italiana”.