La Federazione Ciclistica Italiana, nota anche come Federciclismo o F.C.I. è l'organismo di governo del ciclismo in Italia in tutte le sue specialità e categorie (professionisti, dilettanti, juniores, allievi, esordienti, giovanissimi, amatori e diversamente abili).
Costituita nel 1885 con sede a Roma, ha personalità giuridica di diritto privato, è affiliata al Comitato olimpico nazionale italiano[2][3] e rappresenta l'Italia nell'UCI[3].
La Federazione Ciclistica Italiana nacque, con il nome di Unione Velocipedistica Italiana, a Pavia il 6 dicembre 1885 attraverso l'unione di 17 società ciclistiche, già operanti da tempo in Italia in forma autonoma.[4] Nella seconda metà del 1884, un anno prima della nascita della FCI, risultavano regolarmente costituite 25 società ciclistiche: la più antica di esse era il Veloce Club Fiorentino di Firenze, nato nel 1870, mentre Milano e Torino ospitavano ciascuna tre società di velocipedisti.
Un primo tentativo di unire e coordinare l'attività di queste società sportive fu svolto in occasione delle gare allestite dal Comitato Sportivo della Esposizione Generale Italiana di Torino, in programma dal 23 al 25 agosto 1884. Su iniziativa dell'avvocato Brignone, segretario del VC Torino, si riunirono i rappresentanti di dodici società che, dopo una complessa e conflittuale riunione, firmarono un verbale che precisava, tra l'altro, che il 26 agosto 1884 era stata fondata l'Unione Velocipedistica Italiana. Questa organizzazione però non operò mai, non avendo risolto alcuni aspetti allora dirimenti, come le problematiche legate al professionismo, all'attività amatoriale e alla sede della nascente organizzazione.
A distanza di un anno, per iniziativa del nobile Ernesto Nessi, presidente del Veloce Club Como, si pensò alla creazione di un Veloce Club Nazionale, con sezioni (o comitati) sul tipo di quelli creati dal Club Alpino Italiano. Prevalse questa volta lo spirito unitario e all'Assemblea costitutiva dell'UVI, il 6 e 7 dicembre 1885, parteciparono diciassette società che trovarono l'accordo su uno statuto nel quale, per evitare le divisioni dell'anno precedente, vengono mutuate norme che regolavano l'attività in Inghilterra, Francia e Germania.
Il presidente dell'Unione Velocipedistica Italiana era Ernesto Nessi, il maggior animatore dell'iniziativa. L'avvocato Edoardo Coopmans de Yoldi fu scelto come segretario e Como diventò la sede del massimo ente ciclistico nazionale. Dopo un anno Nessi abbandonò la presidenza e al suo posto fu eletto Agostino Biglione di Viarigi, che nominò come segretario l'avvocato Gustavo Brignone, già animatore del fallito esperimento del 1884. La coppia, superando lo scetticismo dei più, riuscì a preparare la nascente associazione al primo grande scoglio, il sorgere del Touring Club Italiano, costituito nel 1894 proprio per propagandare l'attività cicloturistica. L'Unione in risposta decise, nel Congresso di Verona del 1896, di dedicarsi principalmente all'attività agonistica.
Intanto, a partire dal 1892, si tenevano i primi campionati federali di ciclismo su pista. Nel frattempo la presidenza passò da Biglione di Viargi ad Arturo Cortesi e, dopo neanche un anno, a Carlo Cavanenghi (1859-1912), riconosciuto indiscutibilmente come padre putativo del ciclismo italiano. Cavanenghi fu presidente dell'UVI ininterrottamente dal 1898 al 1912 e lavorò con due segretari, Mario Bruzzone, fino al 1905, ed Ernesto Bobbio.
Cavanenghi e La Gazzetta dello Sport
Nel 1890 l'UVI fu tra le promotrici della fondazione dell'Unione Ciclistica Internazionale, la Federazione internazionale che fissò la sua prima sede ad Alessandria. Fu di questo periodo anche la scelta di legare le sorti del ciclismo agonistico in Italia alle fortune del giornale La Gazzetta dello Sport. Il consiglio direttivo, uscito dalle elezioni di Alessandria nel 1898, quello che portò all'elezione di Cavanenghi, era infatti convinto che soltanto legandosi ad un mezzo di comunicazione come La Gazzetta dello Sport era possibile dare un nuovo, decisivo impulso all'attività. Grazie a questo connubio in poco tempo nacquero alcune delle corse diventate classiche nel corso degli anni, come il Giro di Lombardia (1905), la Milano-Sanremo (1907) e il Giro d'Italia (1909).
Sotto la guida di Cavanenghi l'UVI compì, a cavallo del 1900, grandi progressi, al punto da festeggiare i primi 25 anni di vita, nel 1910 con il seguente bilancio: 294 società affiliate, 1961 corridori non classificati, 541 dilettanti, 185 professionisti. A tre anni prima risaliva peraltro la prima edizione dei campionati federali su strada.
I primi anni del secolo furono anche quelli dei primi successi sportivi ed organizzativi. Dal punto di vista agonistico i corridori italiani si distinsero per affermazioni al Giro d'Italia e nelle corse italiane (Luigi Ganna e Giovanni Gerbi), ma anche all'estero, con Maurice Garin, italiano negli anni del successo alla Parigi-Roubaix (ma non quando si impose alla prima edizione del Tour de France nel 1903, avendo già preso la cittadinanza francese). Le prime affermazioni su pista le ottenne Francesco Verri ai Giochi olimpici del Decennale del 1906.
Dal punto di vista organizzativo il prestigio internazionale della UVI all'inizio del Novecento fu tale che in 10 anni per due volte i Campionati del mondo di ciclismo su pista vennero assegnati alla città di Roma, nel 1902 e nel 1911. L'edizione del 1902 si svolse sull'ellisse del velodromo di Porta Salaria, alla presenza di Vittorio Emanuele III che donò un orologio d'oro con insegne reali e brillanti al vincitore. Il successo della manifestazione fu tale che l'Unione Velocipedistica Italiana fu indicata come federazione modello.
La nascita della Federazione Ciclistica Italiana
Nel 1912 scomparve Cavanenghi, al suo posto fu nominato l'avvocato Pietro Robutti che rimase in carica fino al 1915, quando una nuova crisi federale, legata all'atteggiamento da tenere nei confronti della Gazzetta dello Sport, ormai importante organizzatore oltreché giornale di informazione sportiva, portò alle dimissioni di tutto il Consiglio direttivo dell'UVI. Geo Davidson, candidato delle società liguri, fu nominato presidente. Luigi Scala diventò segretario e la sede dell'Unione fu trasferita a Genova. Tuttavia, su iniziativa di un gruppo di società torinesi "ribelli", nacque una federazione alternativa, chiamata Federazione Ciclistica Italiana. La guerra bloccò l'attività di entrambe le associazioni e ulteriori polemiche.
Alla fine del conflitto l'Unione Velocipedistica e la Federazione Ciclistica si riconciliano e l'attività agonistica tornò a livelli tali di eccellenza che gli anni a cavallo delle due guerre sono ricordati come il periodo eroico del ciclismo italiano.
Nel 1926 nell'ambito della ristrutturazione dello sport italiano da parte del regime fascista, al CONI fu assegnato il compito di nominare i dirigenti delle diverse federazioni. I successi degli anni precedenti della UVI convinsero i dirigenti fascisti a confermare nel suo ruolo il presidente Geo Davidson. Lo stesso anno, per la terza volta dalla loro istituzione, furono assegnati all'Italia i Mondiali di ciclismo, gli ultimi aperti soltanto ai dilettanti.
Nel 1929 il CONI spostò tutte le sedi delle Federazioni a Roma. In quell'occasione fu indicato un commissario straordinario dell'UVI, l'onorevole Augusto Turati che restò in carica un anno; nel 1930 fu nominato un nuovo presidente, l'onorevole Alberto Garelli, e un nuovo segretario, Vittorio Spositi. Nel 1932 l'Unione Velocipedistica Italiana ottenne nuovamente i Campionati del mondo. L'UVI realizzò a Roma una pista in legno montata al centro dello Stadio Nazionale e su questo anello il belga Jef Scherens conquistò il primo dei suoi sette titoli mondiali della velocità professionisti. Binda si aggiudicò il terzo titolo mondiale su strada e Giuseppe Martano si laureò per la seconda volta campione dei dilettanti.
Nel settembre del 1933 il CONI nominò presidente dell'UVI l'ex campione Federico Momo, diventato grande ufficiale, al quale fu affiancato, nella qualità di segretario, Mario Ferretti. Momo si rese protagonista di una profonda ristrutturazione della UVI, soprattutto nella designazione di nuovi dirigenti territoriali. Restò in carica fino al 1937, anno in cui il CONI affidò la presidenza al generale Franco Antonelli che restò in sella finché, allo scoppio della guerra, non fu spedito sul fronte africano.
La Federazione nel secondo dopoguerra
Alla reggenza della Federazione fu promosso allora Adriano Rodoni, fino a quel momento responsabile dei dilettanti della strada.[4] Iniziò così il "regno" di Rodoni, che durò per 40 anni, dal 1940 al 1981 con solo alcune piccole pause. Un regno durante il quale la Federazione cambiò profondamente, passando dai primi difficili momenti del dopoguerra fino quasi al traguardo dei 100 anni di vita (1985).[5]
I primi anni del secondo dopoguerra, per quanto difficili, trovarono nel ciclismo e nei successi della Nazionale con Coppi e Bartali un motivo per ricompattare un Paese dilaniato da 20 anni di dittatura, dall'invasione nazista e della guerra civile strisciante. L'ormai celebre episodio dell'attentato a Palmiro Togliatti e del contemporaneo successo di Bartali al Tour del 1948 permette di capire il clima dell'epoca; soprattutto l'importanza che questo sport aveva ormai raggiunto nella cultura italiana. Il Giro d'Italia di quegli anni rappresentava uno straordinario mezzo di crescita culturale e unificazione, diventando spesso il collante per un rinnovato orgoglio nazionale, nonché la possibilità di apertura verso l'esterno per diverse zone d'Italia.[6]
Durante la presidenza di Rodoni, nel 1964 l'UVI cambiò definitivamente il proprio nome in Federazione Ciclistica Italiana.
Fondamentale in questo lungo periodo l’apporto della Federazione (forte anche dei successi sportivi ottenuti e della personalità prorompente del Presidentissimo), il contributo alla ricostruzione morale, tecnica, politica ed organizzativa delle Istituzioni sportive. Adriano Rodoni fu uno dei primi collaboratori di Giulio Onesti, incaricato nel secondo dopoguerra di rifondare e rilanciare il CONI. Nel 1953, pur sapendo di toccare un tasto dolente, lo stesso Rodoni intraprese una dura campagna contro l’uso degli stimolanti, divenendo così il primo vero pioniere della lotta a tutto campo al doping.
A livello internazionale di rilievo l’impegno della Federazione nel 1965 allorché il CIO minacciò di escludere il ciclismo dai programmi dei Giochi, per via della presenza dei professionisti. Rodoni si impegno a trovare i voti indispensabili per creare due distinte Federazioni (dilettanti e professionisti) all’interno dell’UCI, così da mettere in sicurezza la presenza di questo sport all’interno del programma olimpico.[7]
In rappresentanza degli Affiliati: Fabrizio Cazzola, Giovanni Vietri, Gianantonio Crisafulli, Fabio Forzini
In rappresentanza degli Atleti: Chiara Teocchi, Giancarlo Masini
In rappresentanza dei Tecnici: Serena Danesi
Membri Italiani U.C.I.: Renato Di Rocco (Vice Presidente UCI, Presidente della Commissione Pista, Vice Presidente del Consiglio della Fondazione del Centro Mondiale del Ciclismo, membro della Commissione Professionisti, membro Commissione Remunerazione), Daniela Isetti (membro della Commissione Donne), Elena Valentini (membro della Commissione MTB), Gianluca Crocetti (membro Commissione Commissari di Gara), Roberto Rancilio (membro della Commissione Paraciclismo), Maria Laura Guardamagna (membro della Commissione Disciplinare), Marc Cavaliero (membro della Commissione Etica), Gianluca Santilli (membro della Commissione Economia e Marketing)
Membri Italiani U.E.C.: Enrico Della Casa (Segretario Generale), Cordiano Dagnoni (Commissione Strada), Mario Minervino e Fabio Perego (Delegati Tecnici), Elena Valentini (Commissione Fuoristrada/MTB)
Segretario generale: Marcello Tolu
Collegio dei Revisori dei Conti
Presidente: Simone Mannelli
Componenti effettivi: Marina Maria Assunta Protopapa e Domenico Tudini - Nomina CONI