La collezione Borghese è stata una collezione di opere d'arte nata nel corso del Seicento a Roma rappresentante una delle massime espressioni della cultura barocca. Deve la sua evoluzione e il suo prestigio al cardinale Scipione Caffarelli Borghese, nipote di papa Paolo V, una delle personalità più influenti e lungimiranti del mecenatismo romano del tempo.[1]
La raccolta, che comprende pezzi archeologici, sculture, dipinti, ma anche elementi d'arredo (mobilia, oggettistica), fu sin dall'origine tra le più importanti e notevoli della città e d'Europa trovando la sua conservazione stabile tra i possedimenti della famiglia Borghese, quindi soprattutto nella villa Pinciana, nel palazzo di Borgo e in quello di Campo Marzio.[2]
Nel corso dell'Ottocento diverse opere furono vendute dagli eredi del casato, in particolar modo un grosso gruppo di statuaria classica che entrò nelle raccolte napoleoniche; nel 1902 lo Stato italiano acquistò il resto della collezione musealizzandola all'interno della dimora storica al Pincio, determinando così la nascita della Galleria Borghese.[1]
Storia
Seicento
La collezione del cardinal-nipote Scipione Caffarelli-Borghese (1605-1633)
Le origini
Le prime opere della collezione, di matrice toscana, si registrano intorno al 1519, con Pietro Borghese (1469-1527), natio di Siena e senatore di Roma dal 1515 per volere di papa Leone X.
Il nucleo più importante della raccolta lo si deve tuttavia al collezionismo prorompente e dilagante di Scipione Caffarelli Borghese, la cui ascesa sociale viaggiò parallela alla salita al trono papale nel 1605 dello zio, fratello della madre, papa Paolo V Borghese.[1] La passione per l'arte portò il cardinal-nipote a non fermarsi davanti a nulla pur di acquisire nuovi pezzi per la propria collezione: questa fu iniziata con opere appartenenti al patrimonio familiare, appunto alcune antiche sculture e dipinti di maestri toscani catalogati nelle raccolte di Pietro, tra cui vi erano le Tre Grazie di Raffaello (oggi al Museo Condé di Chantilly), ma nel corso del XVII secolo continuò con acquisti, sequestri e commissioni fino a formare una delle più importanti collezioni d'arte italiane.[1]
Gran parte della collezione era inizialmente costituita dalle opere di antichità rinvenute durante i vari scavi che si stavano tenendo tra i possedimenti Borghese, come quelli degli Horti Lamiani, presso l'Esquilino, o degli Horti Sallustiani, in Campo Marzio.[1] I gusti artistici del cardinale erano eterogenei, essendo questi un accanito collezionista e amatore delle più differenti espressioni artistiche, tuttavia le opere che facevano gola a Scipione erano tutte indirizzate verso un linguaggio che aveva come denominatore comune quello dell'arte antica: nelle raccolte erano infatti pressoché assenti tavole medievali e bizantine, mentre erano cospicue opere di pittori che hanno comunque studiato da vicino la statuaria classica, come Gian Lorenzo Bernini, Domenichino, Tiziano, Guido Reni, Bronzino, Poussin, Raffaello, Caravaggio, Rubens.[1][3]
L'espansione della raccolta
La raccolta di Scipione non era unicamente frutto delle commesse che questi avanzava ai pittori e scultori del tempo, ma si arricchì soprattutto grazie a collezioni altrui, donate, acquistate o persino confiscate.[1] Nel 1607 questi ricevette in dono dallo zio papa Paolo V un insieme di opere sequestrate (circa un centinaio) dallo stesso pontefice al Cavalier d'Arpino,[4] tra le quali vi erano il Ragazzo che monda un frutto, il Bacchino malato e il Fanciullo con canestro di frutta del Caravaggio;[3] allo stesso periodo risale il prelievo coercitivo notturno avvenuto su volontà del cardinal-nipote presso la chiesa di San Francesco al Prato di Perugia, disposto fino a questo punto pur di riuscire ad accaparrarsi la Pala Baglioni di Raffaello che era esposta nell'edificio religioso.[3]
Durante questi anni di espansione collezionistica, dove Scipione fu concentrato ad acquisire per sé quante più opere possibili, il cardinale fu comunque anche attento alle commesse artistiche avanzate nei confronti di autori del Seicento romano. Quindi di Giovanni Baglione, al quale fu richiesta nel 1608 la Giuditta con la testa di Oloferne, di Rubens, Lanfranco, che ebbe tra gli incarichi più notevoli quello decorativo della volta del salone della villa Pinciana, con il grande ciclo del Concilio degli dei (1624-1625) nella sala degli Imperatori,[6] del Guercino, di cui è l'opera pubblica (1622-1626) per la basilica di San Crisogono con la Gloria del santo (oggi a Lancaster House di Londra),[7]Lavinia Fontana, del Cigoli, di Guido Reni, che invece fu chiamato a Roma già nel 1613 proprio dal papa Borghese per decorare la cappella dell'Annunziata al palazzo del Quirinale, interessato in quegli anni da un rifacimento globale grazie agli interventi promossi dallo stesso Paolo V, e per la realizzazione nel 1614 dell'affresco del Carro dell'Aurora sulla volta del salone principale del casino familiare del palazzo "Monte Cavallo", di cui si registra nel 1616 il pagamento,[8] di Orazio Gentileschi, dove nel 1611 per un altro casino dello stesso palazzo fu chiesto di decorare ad affresco la volta con Storie delle Muse (l'intero complesso diverrà poi palazzo Pallavicini Rospigliosi) e di altri autori ancora.[2]
Le raccolte erano originariamente organizzate tra le diverse proprietà della famiglia Borghese, tutte realizzate su volere e sotto la supervisione del cardinale Scipione, che assunse il ruolo di uno dei più potenti uomini a Roma, con una rendita annua pari a circa 90.000 scudi intorno al 1609 e che aumenta a 140.000 scudi a partire dal 1612.[9]
Ancora, al 1617 circa risale infine il reperimento della Caccia di Diana e della Sibilla Cumana del Domenichino, commissionate in origine dal cardinale Pietro Aldobrandini ma sottratte dal Borghese dopo aver trattenuto forzatamente il pittore emiliano in carcere allo scopo di ricattare il cardinale "rivale" affinché cedesse le due opere.[1][10]
La gran parte della collezione fu ricollocata comunque dentro la villa Pinciana e nei luoghi circostanti adibiti a giardino, quando questa fu ultimata, intorno al 1615; un'altra parte, sempre inerente ad opere pittoriche e reperti archeologici, era nel palazzo di Borgo di via della Conciliazione, posseduto dal 1609 al 1635 e che poi diverrà dei Torlonia; un'altra fetta della raccolta era nel palazzo Borghese in Campo Marzio, edificato nel 1591 sempre su incarico del cardinale e per conto del nuovo acquirente, il cardinale Camillo Borghese (futuro papa Paolo V), quest'ultimo che commissionò nel 1605 circa a Caravaggio il suo Ritratto in abiti papali, conservato ancora oggi nelle stanze del palazzo (dov'era assieme a gran parte della quadreria fino ai primi del XX secolo)[2] in quanto non confluito nelle raccolte statali della Galleria Borghese; un'altra parte della collezione era poi nel palazzo Pallavicini Rospigliosi (commissionato da Scipione e rimasto alla famiglia per breve tempo fino al 1616); infine, ancora un'altra parte della raccolta era presso la villa Mondragone di Frascati, dov'erano soprattutto i reperti di antichità rinvenuti nelle aree circostanti.[2]
Le commesse a Caravaggio e Gian Lorenzo Bernini
Le commesse più prestigiose direttamente avviate da Scipione Borghese, tuttavia, furono quelle legate ai sodalizi che il cardinale ebbe con due degli gli artisti più importanti e influenti della Roma del tempo: il giovane Gian Lorenzo Bernini, utilizzato esclusivamente come scultore, e non come architetto, che grazie alle commesse Borghese impose da lì a breve il proprio ruolo sulla scena artistica della città, e Caravaggio, autore già affermato e già presente nelle raccolte di Scipione, richiesto "a distanza" in quanto già fuggito dalla città pontificia e che sarà presente nelle collezioni con dodici suoi dipinti[11] (tra acquisizioni e commissioni).[1]
Il Bernini eseguì per il cardinale, dal 1615 al 1623, i celeberrimi gruppi scultorei ancora oggi conservati nella Galleria, quindi la Capra Amaltea, l'Enea, Anchise e Ascanio, il Ratto di Proserpina, realizzato nel 1621 ma che rimarrà nella galleria solo due anni in quanto Scipione ne fece dono al cardinale Ludovico Ludovisi (la scultura fu poi riacquistata dallo Stato italiano nel XX secolo ed esposta nuovamente nella Galleria), il David, che fu commissionato in origine dal cardinale Alessandro Peretti per la sua residenza di Montalto, e che poi solo alla morte prematura di questi avvenne il subentro nella commessa da parte di Scipione Borghese, e infine l'Apollo e Dafne, completato nel 1625 e che fu di fatto l'ultima opera eseguita dallo scultore per il cardinal nipote.[1]
Le richieste avanzate a Caravaggio avvennero invece negli anni maturi del pittore lombardo, durante il suo secondo soggiorno napoletano, quando questi provava a conquistare con le proprie opere una possibile grazia papale a sconto delle condanne ricevute negli anni precedenti: per l'occasione furono commissionate il San Giovanni Battista disteso (oggi in collezione privata tedesca), il San Girolamo scrivente, il San Giovanni Battista e il David con la testa di Golia (oggi tutte alla Galleria Borghese) e infine la Maria Maddalena in estasi (oggi in collezione privata romana), che, tuttavia, seppur eseguita su commissione di Scipione, non arrivò mai nelle sue raccolte in quanto, alla morte prematura del Merisi, ritornò alla marchesa Colonna di Napoli, per poi far perdere le sue tracce.[1]
Alla morte di Scipione, nel 1633, la collezione era tra le più ricche e stimate della città, citata e segnalata da molti viaggiatori che passavano per Roma; col decesso del cardinale tutti i beni mobili e immobili furono sottoposti a un vincolo fidecommissario utile a preservarne l'integrità, cosa che avvenne fino alla fine del XVIII secolo, quando la dinastia familiare, e con essa anche la collezione, vissero anni difficili.[1]
Nel 1693 viene stilato il primo inventario della collezione Borghese, dettagliato ed esaustivo nella catalogazione e descrizione delle opere, comprendente sia quelle artistiche che archeologiche.[13]
Settecento
Nel Settecento la collezione vive un secolo pressoché di immobilismo, culminato nell'ultima parte da eventi che hanno segnato negativamente le sue sorti.[14] Nel corso del secolo tuttavia vi furono diverse opere di ammodernamento della villa Borghese Pinciana che videro un rifacimento delle volte delle sale dell'edificio con diversi cicli di affreschi compiuti da pittori locali (Mariano Rossi, Francesco Caccianiga, Pietro Angeletti, Domenico De Angelis, Laurent Pêcheux), dove, tra le precedenti commesse di Scipione, solo il Concilio degli dei di Lanfranco rimase superstite.[15] Tra i cicli più notevoli vi fu quello eseguito tra il 1775 e il 1779, quando Marcantonio IV Borghese, in occasione della nascita del figlio primogenito Camillo, VI principe di Sulmona, commissionò a Mariano Rossi il grande ciclo di affreschi per la volta del salone d'ingresso, con le Allegorie della Gloria e Camillo che rompe le trattative con Brenno.[14] Accanto a questi lavori, vi fu anche da una riorganizzazione delle collezioni di antichità all'interno degli spazi del complesso.[14]
Nel 1760 la famiglia prelevò dai Pamphilj (appena estinti perché senza eredi) la villa di Frascati e alcune opere già nella loro collezione, tra cui l'Adorazione dei pastori di Andrea Mantegna (oggi al MET di New York), il Festino degli dei di Giovanni Bellini (oggi alla National Gallery di Washington) e il Bacco e Arianna del Tiziano (oggi alla National Gallery di Londra); ciò avvenne sulla scorta di una richiesta di riconoscimento dei titoli Aldobrandini (già prelevati dai Pamphilj e poi persi con l'estinzione della loro famiglia) da parte dei Borghese in quanto anche loro erano discendenti dell'ultima esponente del casato, ossia Olimpia.[16][17] Sia l'Adorazione dei pastori di Andrea Mantegna che i due baccanali di Giovanni Bellini e Tiziano, tutte già in collezione Aldobrandini e poi in quella Pamphilj, furono quindi acquisiti nel 1769 da Paolo Borghese Aldobrandini (morto nel 1792).[16][17][18] Nel 1781 fu rinvenuta intanto un'altra versione antica dell'Ermafrodito dormiente (oggi alla Galleria Borghese) che prenderà poi il posto della prima versione ritrovata che, già restaurata dal Bernini (il quale aggiungerà alla scultura il materasso) intorno al 1620, confluirà successivamente (1807) nel Museo del Louvre.[14] Nel 1792, con gli scavi di via Prenestina, rinvennero circa altre quarantotto opere archeologiche.[14]
Sul finire del Settecento iniziarono i tempi difficili per la famiglia romana, che portarono ai primi dell'Ottocento, su volontà di Marcantonio IV, la dismissione di molti pezzi della raccolta, in particolar modo i reperti archeologici, di cui se ne contavano all'epoca più di cinquecento e che furono ceduti a un mercante parigino (molti di questi hanno poi preso la strada del Louvre), e poi continuati dal figlio Camillo, che sposatosi con Paolina Bonaparte, cederà diversi blocchi della collezione antica direttamente a Napoleone.[14]
L'Adorazione dei pastori di Mantegna, la Santa Caterina d'Alessandria di Raffaello, il Festino degli dei di Giovanni Bellini e il Bacco e Arianna del Tiziano giunsero invece in eredità al nipote di Paolo Borghese Aldobrandini, Giovan Battista (morto nel 1802).[17] Il Mantegna e il Raffaello sono registrati tra il 1792 e il 1795 nelle proprietà di Alexander Day, passando di mano in mano fino al MET di New York[17] e la National Gallery di Londra il secondo,[19] mentre i due baccanali risultano nel 1796 veduti al pittore e mecenate Vincenzo Camuccini[20] (questi, successivamente, in società col fratello Pietro, trasferì la tela di Tiziano ad Alexander Day nel 1807 circa, che poi la cedette a sua volta a Thomas Hamlet nel 1826 per il museo nazionale di Londra, mentre la tela del Bellini fu ereditata alla morte del Camuccini dal nipote di questi, Giovanni Battista, che la vendette definitivamente sul mercato estero intorno al 1855 in favore di Algernon Percy, IV duca di Northumberland, da cui poi passò di erede in erede fino alla cessione definitiva nel 1916 in favore del museo nazionale di Washington).[16][18][21]
Ottocento
La collezione sotto Camillo II
L'alienazione delle opere antiche verso le collezioni napoleoniche
Nel XIX secolo, durante l'occupazione francese, la pressione fiscale aumentò notevolmente per finanziare le campagne napoleoniche, con aggravio sulle famiglie che si erano opposte ai francesi.[14] Di fronte alle pressanti richieste che venivano da Napoleone stesso e dalle pressioni fiscali e politiche dall'amministrazione francese installatasi a Roma, Camillo Borghese, figlio di Marcantonio IV, tra il 1807 e il 1809 fu forzato a vendere una buona parte della sua collezione di statuaria romana a Napoleone per la somma di otto milioni di franchi (secondo lo storico Ferdinand Boyer,[22] Camillo entrò in difficoltà finanziarie a seguito dell'invasione napoleonica e fu costretto a vendere per far fronte alle spese del patrimonio), nonostante la collaborazione fattiva e continuata di Camillo con gli occupanti francesi e il matrimonio con la sorella preferita di Napoleone, Paolina.[23] Il principe Borghese non ottenne neanche tutta la somma pattuita; fu quindi obbligato ad accettare in pagamento terre e diritti minerari in Lazio, requisite all'uopo dai napoleonici, e che vennero restituite ai proprietari con la Restaurazione.[24]
Per ovviare al dramma fu emanato l'editto del 1802 da papa Pio VII incentrato sulla conservazione e tutela del patrimonio artistico di Roma, che poneva diverse limitazioni all'alienazione di opere d'arte all'estero, a cui seguirono poi gli atti dell'amministrazione dello Stato Pontificio del 1807 che bloccarono la vendita della collezione Borghese. Diversi studi sono stati pubblicati sulla compravendita, contro la quale si mobilitò tutto il mondo intellettuale dell'epoca. Nello stesso anno Antonio Canova intervenne scrivendo direttamente a papa Pio VII un famoso memoriale contro la vendita dei marmi della collezione Borghese a Napoleone.[25] In esso, lo scultore sollevava molti dubbi sulla legalità e sulla moralità dell'accordo.
Vedendo quei capolavori a Parigi al Louvre nel 1810, Canova disse a Napoleone: «Gran orrore Maestà! Vendere capi d'opera di quella sorta! Quella famiglia sarà disonora finché vi sarà storia!».[26] Ancora, Canova definì la vendita «un’incancellabile vergogna» per quegli stessi Borghese proprietari della «villa più bella del mondo».[27] Fu così che la statuaria romana della collezione Borghese, di cui facevano parte l'Ermafrodito dormiente restaurato dal Bernini, l'Antinoo Mondragone descritto dal Winkelmann, il Gladiatore Borghese, l'Era Borghese, l'Ares Borghese, il Vaso Borghese, che fu rinvenuto nel 1645 presso gli Horti Sallustiani, andarono a costituire il nucleo portante della collezione di statuaria classica del Musee Napoleon, oggi chiamato Louvre.[1] Della collezione Borghese vennero vendute circa 700 pezzi, di cui 170 bassorilievi, 160 busti, 30 colonne e diversi vasi.[1]
Restaurato il governo pontificio con il Congresso di Vienna, Camillo Borghese cercò in tutti i modi di recuperare la propria raccolta di antichità. Nel 1815 solo una piccola parte di questi pezzi fu restituita ai Borghese, a causa, probabilmente, del mancato pagamento del prezzo. I tentativi di restituzione della collezione andarono a vuoto anche per via della mancanza di supporto del governo pontificio al principe collaboratore di Napoleone. Antonio Canova, incaricato intanto da papa Pio VII di reperire le opere romane sottratte dalle spoliazioni napoleoniche, proverà a trasferire a Roma anche quelle della collezione Borghese; tuttavia il contratto di vendita stipulato tra Camillo e Napoleone impedì di considerare le opere come espropriate.[14]
La vendita delle opere pittoriche
In un contesto in cui si attuavano le spoliazioni napoleoniche in tutta Italia, i Borghese, cosi come le altre famiglie della'ristocrazia romana, furono costretti a lasciare le loro opere d'arte più preziose a causa delle imposizioni dei regnanti francesi: l'antiquario inglese W. Buchanan scriveva nel 1824 che Napoleone aveva «imposto grandi somme di denaro sui principi e la nobilità ( [...] ) che si era opposta alle sue armate, e quando vedeva che queste venivano pagate, rinnovava le sue richieste finché pensava che i proprietari di opere d'arte detenessero ancora dei tesori antichi: questa fu la sorte dei Principi Colonna, Borghese, Barberini, Chigi, Corsini, Falconieri, Lancellotti, Spada con molte delle famiglie nobili di Roma, vennero forzati... a vendere i loro dipinti... per provare che non disponessero più dei mezzi per sostenere queste pesanti e continue tassazioni».[28] Tra le prime opere pittoriche a lasciare l'inventario dei Borghese vi fu, nel 1801, il dipinto di Caravaggio della Cena in Emmaus, oggi a Londra, che fu ceduto ad un antiquario di Parigi, monsieur Durand, e successivamente il Ritratto di Giulio II di Raffaello, messo probabilmente sul mercato e acquistato da un antiquario inglese, così da entrare nella British Gallery nel 1823, dove da allora si trova.
Quella del Ritratto a Giulio II non fu l'unica opera venduta di Raffaello durante gli anni della rivoluzione francese: allo stesso arco di tempo risalgono le dismissioni di altre opere come le Tre Grazie (oggi al Museo Condé di Chantilly) e il Sogno del Cavaliere e la Santa Caterina d'Alessandria (oggi alla National di Londra).
Il principe Camillo Borghese non restò comunque immobile dinanzi al tacito obbligo di dismissione di parte della collezione in favore di Napoleone, ma bensì si mosse per cercare anche di ripristinare il valore artistico della raccolta con l'immissione di pezzi nuovi prelevati dal mercato d'antiquariato; s'impegnò poi a restaurare i guasti delle spoliazioni napoleoniche organizzando presso la villa Pinciana un nuovo allestimento espositivo in ordine alle opere rimaste nella raccolta, ripensando anche un secondo accesso alla villa, aperto direttamente da piazza del Popolo.[1] Oltre ad alcune opere perse nel 1807 e di cui riuscì a riprendere possesso, come la Minerva in atto di abbigliarsi di Lavinia Fontana, riacquistata nel 1816, la più pregevole che entrò nel catalogo Borghese fu quella che il principe comprò nel 1827 presso un antiquario di Parigi, ossia la Danae del Correggio.[1]
Inoltre sempre a Camillo si deve anche la commissione ad Antonio Canova della Paolina Bonaparte come Venere vincitrice, che andò a riempire lo spazio vuoto lasciato nella "sala del Vaso" della villa Pinciana, chiamata così in quanto un tempo ornata dal vaso Borghese, poi prelevato e esposto nel Louvre intorno al 1807.[1] Nel 1832 intanto Camillo muore e successivamente (tra il 1834 e il 1835) vengono rinvenute altre opere a Monte Calvo in Sabina durante gli scavi di una villa romana avviati dieci anni prima.[14]
Nel 1837 invece la villa Aldobrandini di Frascati ritornò a portare il nome dei suoi antichi proprietari, il cui nome fu ricostituito nel 1816 grazie al fidecommesso di secondogenitura richiesto dai Borghese nel Settecento, che ha consentito, tramite Camillo Borghese Aldobrandini, secondo figlio maschio di Francesco Borghese, VII principe di Sulmona, di ereditare e ripristinare i titoli e successi Aldobrandini.
La vendita di opere scultoree della fine del XIX secolo
Caduto l'impero napoleonico negli anni 30, al fine di evitare ulteriori dispersioni, nel 1833 il principe Francesco Borghese firmò un accordo che rendeva tutta la raccolta inalienabile attraverso un altro fidecommesso, che di fatto rinnovava il primo stilato da Scipione Borghese nel 1633, coprendo tutte le opere mobili e immobili presenti nella villa.[14] La collezione intanto si arricchì di ulteriori pezzi rinvenuti nelle dimore familiari sparse per il territorio pontificio, come a Torrenova, nel 1834, dove fu ritrovato il Mosaico del gladiatore, databile al 320 d.C. (oggi alla Galleria Borghese).
Un primo aspetto museale della galleria si consolida già nel 1841 con il regolamento di visita della collezione, seppur molte opere rimasero sparpagliate tra i vari possedimenti familiari (verranno poi raggruppate e ricollocate nella Villa Borghese Pinciana solo nel Novecento).[14] Tuttavia già dal 1888 i successori di Francesco Borghese, su tutti il principe Paolo, ripresero la vendita di alcune opere del patrimonio di famiglia non vincolate dal fidecommesso (o comunque non è stato appurato se i termini del fidecommesso Borghese fossero stati sciolti per consentire la vendita di alcune di queste opere su cui inizialmente vigeva il vincolo).[14]
Vennero quindi vendute nel 1891 all'americano Luther Kountze due opere di Pietro Bernini (queste erano certamente in principio entro il fidecommesso Borghese) e commissionate dal cardinal Borghese nel 1616, poste originariamente all'entrata della vigna di porta Pinciana: Primavera e Autunno. Le due opere sono conservate al museo MET di New York dal 1990.[29] Due busti di papa Paolo V realizzati da Gian Lorenzo Bernini, su commissione diretta dello stesso papa e conservati presso la "galleria" di villa Borghese, vennero alienati invece in un’asta tenuta a Roma tra il 13 e il 24 marzo 1893, assieme ad altre opere d’arte della collezione Borghese. Un busto passò in una collezione privata a Vienna, ma dalla fine del XIX secolo se ne sono definitivamente perse le tracce;[30] venne poi riscoperto e riattribuito a Gian Lorenzo Bernini da Francesco Petrucci,[31] uno dei massimi esperti berniniani, e si trova ora al Getty Museum di Malibù.[32] Un secondo busto, in bronzo, fu invece venduto nel 1892 ed è confluito poi a Copenaghen, Staten Museum for Kunst. Altre due opere di Pietro Bernini provenienti da Villa Borghese sono infine giunti a Bergamo all'Accademia Carrara: la Virtù sottomette il Vizio, con l'aquila borghese in basso a sinistra, e l'Andromeda, citata nei giardini della villa.
Nel 2008 fu rinvenuto in un'asta a Londra la tela della Danza campestre di Guido Reni (acquistato dallo Stato italiano per la Galleria), già appartenente alla collezione di Scipione Borghese e venduta probabilmente nel XIX secolo.[35] Nel 2018 sul mercato antiquario è comparso invece il Ritratto del Principe Camillo Borghese in abiti napoleonici dipinto da François Gérard, allievo di Jacques-Louis David: il dipinto proviene direttamente dagli eredi Borghese ed è stato venduto alla Frick Collection di New York, dopo un'errata autorizzazione all'esportazione delle Belle Arti di Bologna.[36]
Tommaso Barisini, Crocifissione di Cristo e santi, Maria Vergine annunciata, simboli dei quattro evangelisti e santi, tavola e vetro dorato, 45,4×20,8 cm, 1345-1355, Walters Art Museum, Baltimora
Girolamo da Carpi, Ritratto del cardinale Ippolito de' Medici e del monsignor Mario Bracci, olio su tavola, 138,4×111,8 cm, 1530-1540, National Gallery, Londra
Annibale Carracci (seguace di), Caino uccide Abele, XVII secolo, (perduto)
Benvenuto Tisi da Garofalo, Matrimonio mistico di santa Caterina d'Alessandria, con sant'Anna e san Nicola da Tolentino, olio su tavola, 52×38 cm, collezione privata, Palermo
Niccolò Pisano, Madonna col Bambino in trono tra san Francesco, sant'Antonio e due donatori, olio su tela, 200×112 cm, XVI secolo, Musée Condé, Chantilly
Segue un sommario albero genealogico degli eredi della collezione Borghese, dove sono evidenziati in grassetto gli esponenti della famiglia che hanno ereditato, custodito, o che comunque sono risultati influenti nelle dinamiche inerenti alla collezione d'arte. Per semplicità, il cognome Borghese viene abbreviato a "B.".
Scipione Caffarelli-B. (1579-1633) (a lui si devono gran parte dei meriti della collezione, dalle commesse a Caravaggio e Bernini, alla raccolta di opere di antichità)
Camillo II B. (1775-1832) (sposato con Paolina Bonaparte, fu obbligato a vendere gran parte della collezione ai regnanti francesi; fu il committente della Paolina come Venere di Canova)
^Il sequestro delle opere presenti nella bottega del Cesari avvenne poiché questi fu accusato di essere il mandante di un sicario che aveva sfregiato il volto del Pomarancio (Cristoforo Roncalli). Pertanto, una volta rifugiatosi per qualche periodo nel palazzo della Cancelleria, il pittore risolse la questione con la requisizione della sua raccolta artistica, tra le cui opere comparivano anche alcuni dipinti del giovane Caravaggio.
^ Maurizio Marini, Caravaggio pictor praestantissimus, Newton Compton, Roma, 2005.
^Le commesse di cicli di affreschi a decorare le volte di residenze nobiliari romane era un modello molto in voga nel Seicento, adottato in principio dai Farnese con la Galleria dei Carracci (1597-1607), continuato poi dai Borghese con il Carro dell'Aurora (1612-1614) di Guido Reni nel palazzo Pallavicini Rospigliosi, quindi con il Carro dell'Aurora (1621-1623) del Guercino nella villa Ludovisi voluto dal cardinale Ludovisi e infine concludendo ancora con la commessa Borghese a Lanfranco del Concilio degli dei (1624-1625) per la villa Borghese Pinciana.
^ G. Briganti, Pietro da Cortona o della pittura barocca, Firenze, Sansoni Editore Nuova s.p.a., 1982, pp. 66-72.
^L, su giustiniani.info. URL consultato il 19 ottobre 2021.
^ Belinda Granata, Le passioni virtuose. Collezionismo e committenze artistiche a Roma del cardinale Alessandro Peretti Montalto (1571-1623), collana Saggi di storia dell'arte, Roma, Campisano Editore, 2012, p. 25, ISBN978-88-88168-83-8.
^La caccia di Diana, su Galleria Borghese. URL consultato il 6 agosto 2021 (archiviato dall'url originale il 9 dicembre 2021).
^abcThe Feast of the Gods - Provenance, su web.archive.org, 9 novembre 2010. URL consultato il 7 gennaio 2022 (archiviato dall'url originale il 9 novembre 2010).
^9 Miintz, in Rev. hist. dipl., X, 485; Lanzac de Laborie, VIII, 282-88; Sa.
^ A. Campitelli (a cura di), Canova 1807. Memoriale a papa Pio VII in difesa del diritto del popolo romano contro la vendita dei marmi della collezione borghese a Napoleone, Milano, 2005.
^abcAppartenne alla collezione di Paolo Aldobrandini, nato Borghese, post 1760. A seguito dell'estinzione della famiglia Pamphilj, quella Borghese prelevò i titoli Aldobrandini grazie alla loro discendenza da Olimpia Aldobrandini. Per questi motivi i Borghese riuscirono a far istituire un fidecommesso mediante il quale si vincolava la secondogenitura maschile a dare seguito al nome e ai titoli Aldobrandini. Il nipote di Paolo, Giovan Batitsta Aldobrandini-Borghese, aveva ereditato l'opera e fu colui che si occupò della sua vendita di un gruppo di opere già Aldobrandini a Vincenzo Camuccini e all'estero.
^A.G. De Marchi, Collezione Doria Pamphilj, Catalogo generale dei dipinti, Silvana Editoriale, Roma, 2016, ISBN 9788836632961, p. 103.
^ AA. VV., Il Guercino, Nuova Alfa Editoriale, 1991, p. 80.
Francis Haskell e Tomaso Montanari, Mecenati e pittori. L'arte e la società italiana nell'epoca barocca, Einaudi, Torino, 2019, ISBN 978-88-062-4215-2.