Il suicidio nell'antica Roma era considerato come la massima e legittima espressione della libertà personale.
Il suicidio secondo il Diritto romano
Mentre nella cultura antica greca il suicidio era legittimato solo nel caso riguardasse personaggi esemplari che si trovassero in situazioni particolari, nella tradizione romana era considerato un diritto appartenente a ogni cittadino.[1] Fallire il proprio suicidio non implicava di dover rispondere alla legge, poiché la vita era stimata come un bene supremo, ma legato al diritto privato della persona che poteva disporne a piacimento. Unica eccezione era quella rappresentata da chi, tentando il suicidio per evitare il servizio militare, veniva punito con il congedo con disonore.[2]
Il diritto romano[3] interveniva infatti quando sorgesse un conflitto tra individui, i quali ricorrevano alla legge affinché fossero regolati secondo giustizia. Se, per un verso, il diritto romano non riconosceva particolari libertà ai cittadini, per un altro, non agiva se non quando venisse danneggiato l'interesse di qualcuno. Il suicidio acquistava allora la caratteristica di una libertà del cittadino poiché la legge non interveniva a proibirlo.
Quando infine i giuristi romani in età imperiale si interessarono del suicidio, si limitarono a definirlo una "libertà naturale"[4] enumerando tutti i vari motivi che potevano indurre al suicidio come per sofferenze fisiche o disgusto di vivere (taedium vivere), per follia o «ostentazione, come nel caso di certi filosofi che vogliono mostrare il loro disprezzo per la morte»,[5] per lutti familiari o per malattia, ma confermando sempre che si trattava di un aspetto che non riguardava la legge.
Su tutti i motivi che portavano al suicidio vi è in evidenza per i Romani anche quello della "morte opportuna" per cui invece che attendere la morte passivamente, liberamente si decideva di anticiparla suicidandosi:
(LA)
«...ex omnibus bonis, quae homini tribuit natura, nullum melius esse tempestiva morte...[6]»
(IT)
«...tra tutti i beni che la natura offre agli uomini nessuno è migliore della morte tempestiva...»
Quest'ultimo tipo di suicidio ricorreva nella società romana soprattutto nel caso di gravi ammalati in fine vita che volessero porre termine alle loro sofferenze.
Cicerone ribadisce le idee di Pitagora, secondo il quale l'uomo appartiene alle divinità che decideranno del tempo della sua morte.
(LA)
«Quare et tibi, [...] et piis omnibus retinendus animus est in custodia corporis, nec iniussu eius, a quo ille est vobis datus, ex hominum vita migrandum est, ne munus humanum adsignatum a deo defugisse videamini.[7]»
(IT)
«Perciò tu [...] e tutti i pii dovete trattenere ancor l’anima in prigionia del corpo, né potete emigrarvene dalla vita umana senza l’ordine di colui dal quale l’anima vi è stata data, per non sembrare d’aver disertato l’ufficio umano commessovi dal dio»
Tuttavia in alcune circostanze l'uomo può anticipare la fine della sua vita[8] mettendo in atto quel metodo ottimale per evitare le sofferenze che è quello di darsi la morte «eterno rifugio per non sentire più nulla» (aeternum nihil sentiendi receptaculum)[9]
Sulla stessa linea, Seneca ritiene opportuno suicidarsi quando il corpo non è più in grado di assolvere le sue normali funzioni poiché è diventato «un edificio putrido e decadente» (ex aedificio putri ac ruenti)[10] o quando è stato colpito da una malattia incurabile.
Un altro tipo di suicidio è previsto dai testi giuridici dal I al III secolo d.C. conservati nel Digesto e da alcune costituzioni imperiali del II e III secolo d.C. riportate nel Codice giustinianeo. La legge romana prescriveva infatti che fossero nulle le disposizioni testamentarie lasciate da chi aveva commesso gravi crimini puniti con la morte. Per evitare però la confisca dei beni, dal I secolo a.C. l'imputato, prima della pronuncia della sentenza, poteva evitare la confisca dei beni destinati agli eredi anticipando l'esecuzione della condanna suicidandosi. Successivamente questa disposizione venne annullata salvo il caso che gli eredi del suicida non riuscissero a dimostrare che il suicidio era avvenuto per sottrarsi alle sofferenze di una grave malattia o per il taedium vitae ("noia di vivere"). Nel primo caso occorreva l'intervento di un medico che attestasse le gravi condizioni del malato mentre nel secondo caso era lo stesso medico che procurava il sollievo dalla noia di vivere al suo cliente.
«Affranto dalle angosce di uno spirito oppresso e dai molti dolori del corpo, che mi fecero provare disgusto per entrambi, mi sono dato la morte che desideravo.»
(Iscrizione funeraria di Marco Pomponio Bassulo (50-120 d.C.?)[14])
Antesignano del taedium vitae degli uomini illustri è Lucrezio (98-55 a.C.) che si trova a vivere in un periodo difficile della storia di Roma del I secolo a.C. caratterizzata dalle guerre civili e dal declino dei valori tradizionali sopraffatti dalla dissolutezza portata dall'afflusso delle ricchezze orientali.
«...uno scoramento senza limiti s'impadronì delle anime e delle menti più illuminate [...] E così che delusi e scoraggiati dagli orrori delle prime guerre civili e preoccupati dalla prospettiva di guerre ancora più terribili, alcuni cittadini in cerca di evasione, di oblio e di riposo senza risveglio amaro ... sprofondarono in una sorta di noia morbosa e ansiosa.[16]»
I Romani benestanti, scrive Lucrezio, cercano di sfuggire a questo stato ma non capiscono che in questo modo «si fugge soltanto se stessi, ma non ci si stacca da ciò che si vuole fuggire» [17].
Il suo De rerum natura è ricchissimo di connotazioni tipici del taedium vitae tanto che alcuni studiosi hanno sottolineato il pessimismo di fondo che si opporrebbe alla volontà di rinnovare il mondo a partire dalla filosofia epicurea; in altre parole, in Lucrezio ci sarebbero due spinte contrapposte; l'una dominata dalla razionalità e fiduciosa nel riscatto dell'uomo, l'altra ossessionata dalla fragilità intrinseca degli esseri viventi e dal loro destino di dolore e morte. Altri studiosi, però ritengono che l'insistenza di Lucrezio sugli aspetti dolorosi della condizione umana non sia altro che una strategia di propaganda, per fare emergere più fortemente la funzione salvifica della ratio epicurea.[18]
Questo aspetto della filosofia di Lucrezio ha investito la questione della sua pazzia e del suo presunto suicidio[19] che secondo il pedagogista, medico e scrittore Giulio Della Valle[20], va risolto nel senso più probabile che il poeta si sarebbe tolto la vita come gesto di protesta verso la classe politica in ascesa, o perché condannato a suicidarsi con morte "onorevole".
Seneca (4 a.C.-65 d.C.) avverte anche che sarebbe errato pensare che questa malattia mortale del disgusto di vivere sia propria soltanto dei grandi personaggi della storia:
«Non pensare che solo i grandi uomini abbiano avuto la forza di spezzare le catene della schiavitù umana:...uomini di infima condizione sociale si sono messi in salvo con straordinario impeto e, non potendo morire a loro agio e nemmeno scegliersi il mezzo che volevano per darsi la morte hanno afferrato quello che capitava sotto mano e con la loro violenza hanno tramutato in armi oggetti per sé innocui[21]»
E ad esempio di ciò che afferma porta il caso del gladiatore che si soffocò servendosi della spugna che collettivamente veniva usata nei bagni pubblici per asciugarsi le parti intime:
«Ognuno giudichi come crede l'azione di quest'uomo indomito, ma sia chiaro: alla schiavitù più pulita è preferibile la morte più sozza.[22]»
Tuttavia, aggiunge di non cadere negli eccessi:
«L'uomo coraggioso e saggio non deve fuggire dalla vita ma uscirne. Si eviti anzitutto quel sentimento che si è impadronito di molti: il desiderio anelante di morire[23].»
Uno strumento per continuare a vivere potrebbe essere quello di trovarsi un'occupazione per giovare all'umanità ma accade che il taedium vitae si estenda anche al prossimo facendoci cadere nella misantropia che ci fa pensare che quelle virtù che noi non abbiamo neppure gli altri le possiedano:
«Non basta allontanare le cause personali di tristezza: a volte siamo avvolti dalla misantropia...[24]»
La nostra vita è un paradosso: ne proviamo disgusto ma temiamo di perderla e la vecchiaia ci rinnova continuamente questa paura facendoci coscienti del tempo che passa sempre più velocemente: un'altra caratteristica questa del taediumm vitae:
«Prima il tempo non mi pareva così veloce: ora mi sembra che esso passi con straordinaria velocità, sia perché sento avvicinarsi la fine, sia perché comincio a porre attenzione e a fare il calcolo degli anni perduti.[25]»
Marco Aurelio (121-180 d.C.) vedrà allora la soluzione del taedium vitae solo nel suicidio:
«Dobbiamo convincerci che non dipende dai luoghi il male di cui soffriamo, ma da noi; non abbiamo la forza di sopportare niente, né fatiche né piaceri, neppure noi stessi. Ecco perché alcuni si sono spinti al suicidio, perché le mete che si prefiggevano di raggiungere, a furia di cambiarle, riproponevano sempre le stesse cose, non lasciando spazio alle novità: la vita e il mondo stesso cominciarono a nausearli e alla loro mente si presentò l'interrogativo proprio di chi marcisce tra i propri piaceri: "Sempre le stesse cose! Fino a quando durerà tutto questo?"»[26][27]»
Il suicidio paradossale di Petronio Arbitro
Il suicidio di Petronio Arbitro (27-66) sembrerebbe rientrare nei casi di chi si dà la morte per il taedium vitae, disgustato dalla ricerca dei piaceri e deluso dai suoi godimenti: il ritratto, invece, che ci ha tramandato Tacito, unica fonte della sua vita, è ben diverso da quello del classico gaudente deluso dai piaceri dell'esistenza:
«A proposito di Gaio Petronio, poche cose vanno dette. Soleva trascorrere il giorno dormendo, la notte negli affari ufficiali o negli svaghi; la vita sfaccendata gli aveva dato fama, come ad altri l'acquista un'operosità solerte; e lo si giudicava non un gaudente e uno scialacquatore, come la maggior parte di coloro che dilapidano il loro patrimonio, ma un uomo di lusso raffinato. Comunque, come proconsole in Bitinia, e poi come console, egli seppe mostrarsi energico e all'altezza dei suoi compiti.[28]»
Petronio infatti, non esalta ma usa con signorile distacco i piaceri che la vita gli offre: il suo è un "lusso raffinato" che copre i suoi veri sentimenti così come appaiono nel Satyricon, il suo romanzo dove trapela: «...una sotterranea tristezza, dell'autore, della sua classe sconfitta, di ideali tramontati, di energie senza altra applicazione che la servitù al dispotismo imperiale...»[29] al quale Petronio si oppone "esteticamente", con toni apparentemente semplici («Le sue parole e le sue azioni, quanto più erano libere da convenzioni e ostentavano una certa sprezzatura, tanto maggior simpatia acquistavano con la loro parvenza di semplicità.»[30]) che nascondono la sua sprezzante ribellione in vita[31] e la sua rivincita, in morte, nel segno dell'arte con il suo suicidio che, fuori da ogni schema, è l'antitesi di quello filosofico di Seneca.
Petronio mentre cercava di raggiungere Nerone a Cuma venne fatto arrestare ed allora, aspettandosi di essere condannato a morte,
«a quel punto non sopportò altri indugi del timore e della speranza. Tuttavia, non licenziò precipitosamente la vita: si tagliò le vene e poi tornò a legarle a suo piacimento, parlando con gli amici, ma non di argomenti seri, né cercando la fama di uomo coraggioso. Non diceva né ascoltava niente sull’immortalità dell’anima, né altre sentenze filosofiche, ma solo canti leggeri e versi facili.[32]»
Progettò dunque la sua morte non come avrebbe voluto Nerone, ma come se fosse un sonno naturale e nello stesso tempo non lasciò, da cortigiano, un elogio al suo signore ma un duro giudizio:
«Andò a pranzo e si assopì, volendo che la sua morte, pur imposta, avesse l'apparenza di un fortuito trapasso. Al testamento non aggiunse, come la maggior parte dei condannati, codicilli adulatori per Nerone o Tigellino e alcun altro potente; fece invece una particolareggiata narrazione delle scandalose nefandezze del principe, citando i nomi dei suoi amanti, delle sue prostitute e la singolarità delle sue perversioni: poi, dopo averlo sigillato, lo inviò a Nerone. Spezzò quindi il sigillo, per evitare che servisse a rovinare altre persone.»[33]»
Il suicidio degli schiavi
La considerazione del suicidio come un diritto privato valeva per gli uomini liberi. Diverso l'atteggiamento della legge nei confronti del suicidio dello schiavo, atto che veniva giudicato come causato «dalla sua stessa nequitia»[34] per cui il servo veniva definito un "cattivo schiavo", ossia "uno schiavo che non è uno schiavo": "cattivo" non moralmente ma nel senso che la "res" servile mostrava con il tentato suicidio un difetto nascosto, un vitium, che la rendeva un utensile mal funzionante, che il venditore era obbligato a denunciare, se non voleva incorrere nel risarcimento al compratore per la vendita fraudolenta.[35]
Il suicidio della gente comune
Le fonti storiche antiche ci hanno tramandato esempi di suicidi di personaggi famosi che si uccidono in vari modi, per lo più trafiggendosi di propria mano o gettandosi sopra un pugnale tenuto da uno schiavo o tagliandosi le vene, mentre trascurano quello che avveniva ogni giorno tra la gente comune. Un'eccezione è rappresentata da Orazio che ci descrive come per un disastro finanziario abbia tentato il suicidio, sventato dall'intervento del filosofo Stertinius:
(LA)
«Unde ego mira descripsi docilis praecepta haec, tempore quo me, solatus iussit sapientem pascere barbam atque a Fabricio non tristem ponte reverti. Nam male re gesta cum vellem mittere operto me capite in flumen, dexter stetit et “cave faxis te quicquam indignum; pudor” inquit “te malus angit,
insanos qui inter vereare insanus haberi.[36]»
(IT)
«Ho trascritto di lui [del filosofo Stertinio] questi precetti mirabili, dal giorno in cui mi diede conforto e mi ordinò di farmi crescere la barba da filosofo e tornarmene via dal ponte Fabricio meno triste: andato ogni mio affare alla malora, mentre, coperto il capo, stavo lì per buttarmi nel fiume, egli comparve alla mia destra e disse: "Non farai cosa indegna di te. Falso pudore ti angustia: ti vergogni, temi d’essere considerato un pazzo in mezzo ai pazzi".»
Il racconto di Orazio indica il ponte Fabricio quale luogo da dove forse comunemente ci si suicidava e il gesto di coprirsi la testa prima di uccidersi, che è confermato anche da Livio a proposito dei suicidi collettivi di plebei alla fine del V secolo a.C. per gli interventi per la carestia del prefetto dell'annona Lucio Minucio:
(LA)
«capitibus obvolutis se in Tiberim praecipitaverunt.[37]»
(IT)
«si gettarono nel Tevere dopo essersi velati il capo.»
Mentre il ceto più alto trascurava questo modo di uccidersi, ritenuto indegno della loro condizione sociale, era invece frequente tra i plebei l'impiccagione, una forma semplice di uccidersi in privato che ci tramandano diverse commedie di Plauto.[38]
Il suicidio per devotio
Una originale forma di suicidio presso i Romani era la devotio per la quale un comandante dell'esercito nel corso della battaglia sacrificava la sua vita come offerta agli dei Mani per ottenere in cambio la salvezza e la vittoria dei suoi uomini. Sebbene questo rito fosse praticabile da qualsiasi cittadino[39] di solito doveva essere eseguito dal console o dal dittatore romano ma in effetti lo si ritrova esclusivamente nella gens dei Decii.
Il primo caso di devotio fu nel 340 a.C. quello del consolePublio Decio Mure, combattendo contro i Latini: Dopo aver consultato gli auspicia prima della battaglia del Vesuvio e riscontrando che erano poco favorevoli,[40] Publio chiese al pontefice come avrebbe potuto sacrificarsi per salvare il suo esercito, attirando sopra di sé la collera degli dei. Il pontefice gli mostrò un rito sacro, secondo il quale, indossata una toga praetexta, velatosi il capo, doveva così invocare gli dei:
(LA)
«Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, Divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, Dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupaui, ita pro re publica [populi Romani] Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique devoveo.[40]»
(IT)
«Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici.»
Espletate queste formalità religiose, il console si lanciò a cavallo tra le file nemiche. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde colpito dai dardi e dai soldati latini. Questo gesto diede ai suoi una tale fiducia e una tale forza che i Romani si gettarono con grande impeto nella battaglia, mentre i nemici, confusi, cominciarono ad arretrare sotto la foga dell'armata romana, rincuorata dal sacrificio del proprio comandante. La vittoria, alla fine, arrise ai Romani.[41]
Quando Seneca, per la sua sospetta partecipazione[43] alla congiura di Pisone[44], riceve l'ordine di Nerone di togliersi la vita onorevolmente secondo il mos maiorum, altrimenti sarebbe stato giustiziato come un uomo comune, non esita a scegliere il suicidio in osservanza del suo pensiero stoico che proclama che i mali sono tali solo in apparenza. In opposizione alla dottrina platonica che condannava il suicidio non motivato da gravissime circostanze:
«Ma chi uccide la cosa che gli è più propria, la cosa che, si dice comunemente, gli è più cara? Che cosa dovrà patire? E intendo chi se stesso uccide, sottraendosi con violenza al destino che gli è assegnato; chi compie tale delitto, senza che la Città lo abbia condannato a morire, senz'esser costretto da qualche caso inevitabile e angoscioso; senz'esser stato colpito da qualche ignominia che non ha rimedio e tale che renda impossibile la vita; chi per inerzia e viltà e debolezza impone a se stesso ingiusta sentenza.[...] In quanto alla sepoltura di chi si è in tal modo distrutto, sarà, intanto, isolata e non ci sarà nessuna altra tomba vicina; in secondo luogo (...), in quei posti che non sono lavorati; senza nome e senza pompa si dovrà seppellir lo sciagurato, senza lapidi e senza iscrizioni che ne distinguano la fossa.[45]»
lo stoicismo può anche accettare il suicidio come atto conclusivo del compito riservatogli dal destino, purché sia appunto una scelta deliberata e non dettata da un impulso momentaneo. Dev'essere cioè un atto razionalmente giustificato:
(LA)
«Eadem illa ratio monet, ut, si licet, moriaris quemadmodum placet.[46]»
(IT)
«La ragione stessa ci esorta a morire in un modo, se è possibile, che ci piace.»
Anche se il saggio deve giovare allo Stato, il suo servigio non può arrivare fino a compromettere la propria integrità morale, per salvare la quale egli dev'essere pronto all'extrema ratio del suicidio. Solo la virtù e la saggezza, infatti, hanno valore, mentre la vita, sebbene preferibile alla morte, è un bene indifferente come la ricchezza, gli onori, e gli affetti.[47] Se quindi la vita non consente più un sereno esercizio della ragione, il saggio è pronto a rinunciarvi, convinto che
(LA)
«Bene autem mori est effugere male vivendi periculum[48]»
(IT)
«Morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male.»
Il suicidio socratico di Seneca
La morte di Seneca è descritta da Tacito con toni molto simili a quella di Socrate riportata nel Fedone e nel Critone di Platone riproponendo nel racconto la stessa atmosfera del filosofo circondato da parenti e amici. Come il filosofo greco è lui che consola i presenti invece che essere da questi consolato:
(LA)
«Simul lacrimas eorum modo sermone, modo intentior in modum coercentis ad firmitudinem reuocat, rogitans ubi praecepta sapientiae, ubi tot per annos meditata ratio aduersum imminentia? Cui enim ignaram fuisse saeuitiam Neronis? Neque aliud superesse post matrem fratremque interfectos quam ut educatoris praeceptorisque necem adiceret.[49]»
(IT)
«Frenava, intanto, le lacrime dei presenti, ora col semplice ragionamento, ora parlando con maggiore energia e, richiamando gli amici alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro le fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai più, dopo aver ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro.»
Dopo aver parlato ai discepoli, Seneca compie l'atto estremo:
(LA)
«Post quae eodem ictu brachia ferro exsolvunt. Seneca, quoniam senile corpus et parco victu tenuatum lenta effugia sanguini praebebat, crurum quoque et poplitum venas abrumpi.[50]»
(IT)
«Dopo queste parole, tagliano le vene del braccio in un solo colpo. Seneca, poiché il suo corpo vecchio ed indebolito dal vitto frugale procurava una lenta fuoriuscita al sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia.»
(LA)
«Seneca interim, durante tractu et lentitudine mortis, Statium Annaeum, diu sibi amicitiae fide et arte medicinae probatum, orat provisum pridem venenum quo damnati publico Atheniensium iudicio extinguerentur promeret; adlatumque hausit frustra, frigidus iam artus et cluso corpore adversum vim veneni. postremo stagnum calidae aquae introiit, respergens proximos servorum addita voce libare se liquorem illum Iovi liberatori. exim balneo inlatus et vapore eius exanimatus sine ullo funeris sollemni crematur. ita codicillis praescripserat, cum etiam tum praedives et praepotens supremis suis consuleret.[51]»
(IT)
«Seneca intanto, protraendosi la vita in un lento avvicinarsi della morte, prega Anneo Stazio, da tempo suo amico provato e competente nell'arte medica, di somministrargli quel veleno, già pronto da molto, con cui si facevano morire ad Atene le persone condannate da sentenza popolare. Avutolo, lo bevve, ma senza effetto, per essere già fredde le membra e insensibile il corpo all'azione del veleno. Da ultimo, entrò in una vasca d'acqua calda, ne asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che, con quel liquido, libava a Giove liberatore. Portato poi in un bagno caldissimo, spirò a causa del vapore e venne cremato senza cerimonia alcuna. Così aveva già indicato nel suo testamento, quando, nel pieno della ricchezza e del potere, volgeva il pensiero al momento della fine.»
La somiglianza evidente con certi particolari (il discorso, la cicuta, poi la libagione alla divinità) della morte di Socrate, ha fatto ipotizzare[52] che Tacito abbia costruito il racconto ad imitazione del testo platonico. In effetti Tacito descrive con termini affini quasi tutti i suicidii dei filosofi e dei sapienti: quello di Trasea Peto, di Catone Uticense, per contrasto anche quello di Petronio Arbitro) e quello di Marco Anneo Lucano, nipote di Seneca il quale sembra fosse anche lui coinvolto nella congiura[53]:
(LA)
«Exim Annaei Lucani caedem imperat. is profluente sanguine ubi frigescere pedes manusque et paulatim ab extremis cedere spiritum fervido adhuc et compote mentis pectore intellegit, recordatus carmen a se compositum quo vulneratum militem per eius modi mortis imaginem obisse tradiderat, versus ipsos rettulit eaque illi suprema vox fuit. Senecio posthac et Quintianus et Scaevinus non ex priore vitae mollitia, mox reliqui coniuratorum periere, nullo facto dictove memorando.[54]»
(IT)
«Comanda, poi, la morte di Anneo Lucano. E allorché costui, mentre il sangue usciva dalle vene, sentì che i piedi e le mani si facevano freddi e lo spirito vitale se ne andava poco a poco dalle estremità, ma la mente restava ancora lucida e pulsava vitale il cuore, si rammentò dei versi che aveva composto, nei quali aveva descritto un soldato ferito che moriva nello stesso modo; li volle recitare e furono le sue ultime parole. Perirono poi Senecione e Quinziano e Scevino, smentendo le precedenti mollezze della loro vita; in seguito morirono gli altri congiurati, senza fare o dire nulla che meriti ricordo.»
Note
^Paul Veyne, La società romana, Laterza.Roma-Bari 1990
^Lo studio del diritto romano ovvero Le Instituta e le Pandette messe in confronto cogli articoli di tutte le parti del codice nelle recitazioni di Eineccio. Versione italiana con note. Opera elaborata da una Società di giureconsulti per cura di Nicola Comerci. Volume 1. [-3.] - Napoli : stabilimento letterario tipografico dell'Ateneo, 1830, p.391
^Arrigo Diego Manfredini, Il suicidio: studi di diritto romano, G. Giappichelli, 2008
^Antonio Parrino, I diritti umani nel processo della loro determinazione storico-politica, GAIA srl - Edizioni Univ. Romane, 2007 p.25
^Francesco Remotti, Forme di umanità, Pearson Italia S.p.a., 2002 p.68
^Plotino, Porfirio e Microbio affermano decisamente la loro contrarietà al suicidio poiché lo scopo del vivere è quello di purificare l'anima e spezzare violentemente il legame di questa col corpo significa non tener conto della scadenza stabilita dagli dei.
^Aldo Petrucci, Lezioni di diritto privato romano, G. Giappichelli Editore, 2015, p.66
^Sant'Agostino di Ippona sostiene che il suicida pecca contro Dio e commette un'ingiustizia nei confronti della comunità. Egli scrive: «Noi, e non senza ragione, non troviamo mai nei libri canonici un punto in cui sia comandato o permesso da Dio di uccidersi né per la gloria immortale né per liberarsi da un male o per evitarlo. Anzi, dobbiamo intendere che ci sia stato proibito, dove la legge dice: "Il prossimo tuo [....] Non ucciderai": dunque né altri né te stesso: infatti chi uccide se stesso, non uccide altri se non un uomo.» (De Civitate Dei, Roma, Nuova Città Editrice, 1974, libro I, p.20.)
^Berlage J., Ziekten en sterfgevallen in de brieven Van Plinius de Jongere, Hermeneus, 9, 1938, pp 66-73
^Non esistendo immagini dell'epoca che raffigurino con certezza Lucrezio, alcuni e diversi busti sono stati identificati talvolta con suoi ritratti, reali o di fantasia. Ad esempio: (a sinistra) uno dei busti noti come Pseudo-Seneca, che in realtà erano forse ritratti immaginari di Esiodo (l'esemplare mostrato venne trovato nella villa dei papiri di Ercolano, noto centro della filosofia epicurea); e un busto dell'imperatore Caracalla, con l'abbreviazione Luc. Car., cioè Lucio Caracalla (il suo vero nome di nascita era Lucio Settimio Bassiano) e non Lucrezio Caro. (G. Lippold, Testo per Arndt-Bruckmann, Griech. u. röm. Porträts, tavv. 1211-1216, Monaco 1942 e Enciclopedia dell'arte antica)
^Yolande Grisé, Le suicide dans la Rome antique, Le Belles Lettres, Parigi 1983, p.70
^Lucrezio, De rerum natura, Libro III, Newton & Compton, Roma 2000, 1068-1069 p.191
^M. Aurelio, Colloqui con se stesso In Ubaldo Nicola, Antologia di filosofia. Atlante illustrato del pensiero, Giunti Editore, p.115
^L'interrogazione finale è una citazione ripresa da Seneca, «...cominciò a disgustarli la vita e persino il mondo, ed ecco affacciarsi la tipica domanda, frutto del piacere deluso: "Sempre le stesse cose e fino a quando?"» (Seneca,La serenità dello spirito, II, 6-15, pp.17-21)
^Scrive Tacito: «Tornato poi alle sue viziose abitudini (o erano forse simulazione di vizi?) venne accolto tra i pochi intimi di Nerone» (in Tacito, op.cit.ibidem)
^François Hinard, Marie-Françoise Lambert, La mort au quotidien dans le monde romain: actes du colloque organisé par l'Université de Paris IV (Paris-Sorbonne 7-9 octobre 1993), De Boccard, 1995 p.195
^Seneca venne costretto al suicidio da Nerone ma non esistono prove che egli fosse un congiurato: negli Annales di Tacito, al capitolo XV, dove viene descritto il contesto del suicidio e la congiura, Seneca non viene associato al braccio armato dei congiurati.
^Anna Laura Trombetti Budriesi, Un gallo ad Asclepio. Morte, morti e società tra antichità e prima età moderna, pp. 393-397
^Arturo De Vivo, Elio Lo Cascio (a cura di), Seneca uomo politico e l'età di Claudio e di Nerone: atti del Convegno internazionale: Capri 25-27 marzo 1999, pp. 201 e segg.