Durante la notte del 30 giugno 1963, a Villabate (grosso comune alle porte di Palermo), una Giulietta imbottita di esplosivo che era stata abbandonata davanti all'autorimessa di Giovanni Di Peri (ritenuto il capomafia della zona) esplose ed uccise il custode Pietro Cannizzaro e il fornaio Giuseppe Tesauro, che si erano avvicinati all'automobile notando la fuoriuscita di fumo causata dall'accensione della miccia[4][3].
La strage
Nella tarda mattinata del 30 giugno (ore 11:30), a seguito di una telefonata giunta intorno alle ore 07:30[5] alla stazione dei carabinieri di Roccella (borgata a est di Palermo) avvisante della presenza sospetta di un'autovettura, una pattuglia dell'Arma dei Carabinieri, unitamente a un sottufficiale di Polizia in forza alla Squadra Mobile della Questura di Palermo, si recò sulla strada provinciale che collega le due borgate di Ciaculli e Gibilrossa, in una trazzera all'ingresso del fondo Sirena di proprietà del boss mafioso Giovanni Prestifilippo (legato alla cosca dei Greco), rinvenendo un'altra Giulietta abbandonata (risultata anch'essa rubata e con targa contraffatta) con le portiere aperte e i pneumatici bucati[6]. Sospettando che si trattasse dell'ennesima autobomba, venne chiamata una squadra di artificieri, che giunse sul posto intorno alle ore 16:00. Questi ispezionarono l'auto e tagliarono la miccia bruciacchiata di una bombola di gas trovata sul sedile posteriore e quindi dichiararono il cessato allarme[7]. Secondo la testimonianza di uno dei sopravvissuti, il brigadiereGiuseppe Muzzupappa[5], l'apertura del bagagliaio da parte del tenente Mario Malausa, comandante della tenenza di Roccella, causò l'esplosione della grande quantità di tritolo ivi contenuta, che dilaniò tutti i presenti[4][3].
Basandosi soprattutto su fonti confidenziali e ricostruzioni indiziarie, le indagini dell'epoca ipotizzarono un mancato attentato preparato dai mafiosiPietro Torretta, Michele Cavataio, Tommaso Buscetta e Gerlando Alberti contro il loro rivale Salvatore Greco detto Cicchiteddu (poichè la trazzera in cui fu abbandonata l'autobomba conduceva proprio a Ciaculli)[5] oppure contro il suo alleato Giovanni Prestifilippo (il quale abitava a soli duecento metri dal luogo dell'attentato)[5], che non avrebbe centrato l'obiettivo perché la Giulietta imbottita di esplosivo bucò gli pneumatici a causa del fondo stradale accidentato e perciò venne abbandonata, dopo un tentativo fallito di disfarsene (come dimostrato dalla miccia bruciacchiata collegata alla bombola rinvenuta nel sedile posteriore).[16][5]
Torretta e Buscetta (nel frattempo resosi latitante) furono però gli unici rinviati a giudizio per le autobombe di Villabate e Ciaculli dal giudice istruttore Cesare Terranova (ordinanza-istruttoria denominata Pietro Torretta + 120 dell'8 maggio 1965)[5], ma nel processo che ne scaturì, celebrato per legittimo sospetto a Catanzaro contro i protagonisti della prima guerra di mafia (il famoso “processo dei 117"), entrambi vennero assolti per insufficienza di prove, anche se nello stesso processo Torretta venne condannato a 27 anni di carcere per un altro duplice omicidio mentre Buscetta (giudicato in contumacia) a dieci anni per associazione a delinquere[9][2].
Poiché, ad oggi, rimangono ufficialmente ignoti i responsabili e il movente della strage[14], sono state avanzate diverse ipotesi. Inizialmente si pensò che il vero obiettivo dell'attentato fosse il tenente Mario Malausa a causa delle indagini fatte sui rapporti tra mafia e politica.[18][19]. In un articolo pubblicato dal quotidiano L'Ora nell'immediatezza dei fatti[20], si suppose che la Giulietta deflagrata accidentalmente a Ciaculli fosse destinata invece ad esplodere come doppia autobomba contro l'autorimessa del boss Giovanni Di Peri a Villabate ma gli attentatori l'abbandonarono per strada a causa della foratura di un pneumatico, giungendo a destinazione con una sola Giulietta. Successivamente, si ipotizzò anche che la mafia potesse aver utilizzato come consulenti artificieri esperti dell’O.A.S., reduci della stagione di attentati con autobombe in Algeria durante la tentata repressione dell'insurrezione algerina nel 1962.[21] In un'intervista, lo studioso Giuseppe Casarrubea avanzò il sospetto che nell'attentato fossero coinvolti elementi neofascisti a causa delle sue analogie con la strage di Peteano (31 maggio 1972)[22].
^Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, Parte III: La c.d. guerra di mafia, in Ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio contro Abbate Giovanni + 706, vol. 12, pp. 2315-2372.
^ Lino Jannuzzi, I grandi protettori, su L'Espresso, 11 aprile 1965. URL consultato il 28 marzo 2023.