La vicenda si originò dai contrasti tra il capo del governoBenito Mussolini e il gerarca Roberto Farinacci, capo del fascismo intransigente.[4] Farinacci dette inizio a una campagna scandalistica contro i fidi di Mussolini che terminò con l'espulsione dal Partito Nazionale Fascista (PNF) di Belloni (1930), del segretario del Fascio di combattimento di Milano Mario Giampaoli (1929) e, nel 1933, dell'ex segretario di partito Augusto Turati, insieme a migliaia di altri individui giudicati indesiderati da parte del nuovo segretario del PNF Giovanni Giuriati (ottobre 1930). Anche Carlo Maria Maggi, fedelissimo di Farinacci, fu espulso nel 1928, ma per un breve periodo. Nel caso furono coinvolti anche il vicesegretario del PNF Achille Starace e il fratello di Mussolini, Arnaldo, avversario di Giampaoli.[5]
Lo scandalo, insabbiato dal regime, fu scoperto nel dopoguerra grazie alle carte mai pubblicate dell'archivio di Enrico Mario Varenna, faccendiere e principale collaboratore di Farinacci.[6]
Roberto Farinacci era stato segretario del Partito Nazionale Fascista dal 15 febbraio 1925 al 30 marzo 1926, ma era stato allontanato dalla guida con l'accusa di aver consentito agli squadristi di abbandonarsi ripetutamente ad azioni criminali. Il gerarca, rappresentante del fascismo intransigente, squadrista, repubblicano ed anticlericale[8], voleva vendicarsi contro il cosiddetto "fascismo-regime" anche a prezzo di colpire direttamente il suo vertice Benito Mussolini.
Avvalendosi di un fedelissimo, l'ex federale di Milano Carlo Maria Maggi, Farinacci fece raccogliere prove su malversazioni da parte del podestà di Milano Ernesto Belloni e di Mario Giampaoli, che era succeduto a capo della federazione fascista milanese allo stesso Farinacci.[9] Lo stesso Belloni - vicino al segretario del PNF Augusto Turati ed al fratello del Duce Arnaldo Mussolini (che proprio da Milano dirigeva Il Popolo d'Italia) - fu accusato di aver intascato un tangente di 30 milioni di dollari nell'ambito di una transazione su un prestito ricevuto dal Comune di Milano. La campagna che ne seguì porto il podestà alle dimissioni il 5 settembre 1928.[10]
Giampaoli, fascista della prima ora e fondatore dei Fasci nel 1919, pur godendo della stima di Benito Mussolini, era descritto già nel 1926, nelle lettere inviate al capo del fascismo dal fratello Arnaldo come responsabile del clima di violenza e intimidazione diffuso nel capoluogo lombardo. Nel maggio del 1927, Arnaldo Mussolini informava il fratello Benito che il "fascismo a Milano ha perduto terreno in questi ultimi mesi" e Giampaoli, anche per il suo passato corridoniano e socialista, era considerato molto popolare fra la gente comune.
Farinacci, cosciente della popolarità di Giampaoli, cercò dapprima di minarne la credibilità anche con accuse infondate, come quella di aver ordito la strage del 12 aprile 1928,[11][12] per poi concentrarsi sullo stile di vita del gerarca, incallito giocatore d'azzardo, che conduceva un'esistenza al di sopra delle apparenti possibilità grazie alle risorse che arrivavano da imprenditori ed appaltatori a lui vicini.
La reazione di Mussolini ai dossier di Farinacci fu di inviargli un segnale, facendo espellere Carlo Maria Maggi dal PNF. Ma l'ex federale alzò il tiro, inviando alla fine di settembre 1928 una lettera al capo del governo, con un'ambigua minaccia:
«Le verità amare trionfano sempre nel tempo contro ogni sopruso, quando siano custodite e difese virilmente nel dolore.»
Per comprendere il senso Mussolini invio un telegramma al Prefetto di Milano Giuseppe Siragusa:
«Chiami on. Maggi e chieda che cosa intendeva dire con la frase "verità amare" contenuta nel suo telegramma direttomi. È suo preciso dovere di deputato e di cittadino rispondere.»
A rispondere fu proprio Farinacci, che mostrò al capo del governo una lettera con cui Giampaoli chiedeva ad un'altra persona di uccidere lo stesso Farinacci, in cambio di un compenso di 2.000 lire. Di fronte a tale prova Mussolini non poté che convocare Giampaoli per avere spiegazioni a riguardo, destituendolo ed inviando il vicesegretario del PNF Achille Starace quale commissario della federazione milanese.
Giampaoli, pur consapevole di non poter sfuggire momentaneamente dall'allontanamento dagli incarichi ricoperti, ritenne che la sua posizione - anche grazie alla popolarità di cui godeva - potesse essere ripristinata una volta superato il momento più critico. Utilizzò perciò i mesi successivi per mobilitare le squadre di camicie nere ed arditi a lui fedeli per prepararsi ad eventuali scontri di piazza e tenere sotto scacco i sostenitori di Farinacci.
Ma Starace, coadiuvato dal capo ufficio dell'Ente sportivo provinciale fascista Rino Parenti, finì con lo scoprire come i gruppi rionali di Giampaoli praticassero estorsioni ai danni dei commercianti e come gli stessi fossero pronti a dare il via anche a scontri violenti a difesa del loro capo.[13]
Così il 19 maggio 1929 Starace comunicava a Mussolini l'esito dell'operazione:
«Dopo cinque mesi di lavoro durante i quali ho compiuto ogni sforzo per corrisponder sia pure in parte alla fiducia che in me avete riposto vi garantisco che il fascismo milanese riordinato nella sua organizzazione e rinsaldato nello spirito è più che mai sensibile all'onore di ricevere vostri ordini. Starace»
(Dalla lettera inviata da Starace al Duce, al termine delle indagini svolte a Milano 19 maggio 1929)
Nel frattempo Farinacci, dalle colonne del giornale Il Regime Fascista, tornò a colpire Belloni con nuove e più circostanziate accuse. L'ex podestà querelò il gerarca per diffamazione, ma Mussolini, nel tentativo di evitare un processo in tribunale che avrebbe danneggiato l'immagine del PNF, tentò di intervenire tramite il fratello Arnaldo per far riconciliare i due. Il tentativo non ebbe successo per l'irriducibilità di Farinacci: il processo, svoltosi a Cremona tra il settembre e l'ottobre del 1930, vide soccombere Belloni con l'assoluzione del querelato.[14]
Nello stesso periodo, nell'ottobre del 1929, Farinacci attaccò anche Augusto Turati, basandosi sulle equivoche confidenze fattegli dalla maîtresse Paola Marcellino, che gestiva la lussuosa casa d'appuntamenti della quale erano entrambi clienti. All'inizio del 1930 Turati presentò le proprie dimissioni da segretario di partito ma Mussolini le respinse. Tuttavia un intero anno di campagna scandalistica e accuse da parte dei suoi avversari, tra cui Starace[15], segnarono la sua fine politica e giornalistica.
«La voce pubblica, agitata da Roberto Farinacci, venne catapultata su Turati, che, dal punto di vista dei rapporti con l'altro sesso, non era e non è un cherubino. Finché guidò le sorti del partito lo sostenni. Farinacci, da anni, attendeva il momento per sistemarlo, una volta per sempre. Voi mi dite, Yvon, che Turati fu sommerso dalla calunnia, e che la sua omosessualità fu una fosca favola inventata dall'uomo di Cremona ai suoi danni. Ma, in Italia, quando la voce pubblica, comunque organizzata, colpisce, nulla è possibile per renderla inoperante.»
(Dichiarazione di Benito Mussolini riportata da Yvon De Begnac in Taccuini mussoliniani, Il Mulino, Bologna, 1990, pag. 472)
Conseguenze
Farinacci chiese e ottenne per Belloni, oltre all'espulsione dal Partito Nazionale Fascista nel 1930,[16] anche la condanna a cinque anni di confino.
Giampaoli invece fu destituito da Starace da tutte le cariche in Lombardia nel dicembre del 1928 ed infine espulso dal PNF ad aprile dell'anno successivo. Da allora cominciò il suo pieno declino politico. Si trasferì a Napoli per seguire la carriera imprenditoriale.
Anche Turati, dimessosi dalla segreteria del PNF nel 1930, fu radiato dal partito nel 1933[17] e condannato al confino a Rodi.[15][17] Nuovo segretario del PNF divenne Giovanni Giuriati, poi sostituito da Starace nel 1931.[18] Giuriati dette inizio alla grande campagna di epurazione che coinvolse oltre 120 000 individui.
Alla fine, il piano di Farinacci di indebolire la fazione mussoliniana ebbe successo ma gli causò anni di isolamento politico da parte del regime.
Dopo la seconda guerra mondiale, quando i fatti vennero per la prima volta alla luce, non poté essere organizzata una verifica degli avvenimenti e nel caso un nuovo processo in quanto i protagonisti della vicenda erano già defunti: Mussolini, Farinacci e Starace erano stati fucilati nel 1945, Belloni era morto nel 1938, Giampaoli in data incerta (1943 o 1944) mentre Arnaldo Mussolini nel 1931.
Anche Giuseppe De Capitani d'Arzago, podestà di Milano dopo Belloni, morì il 17 novembre 1945, troppo presto affinché un interrogatorio fosse istituito.
Turati invece, allontanatosi dal fascismo dopo l'esperienza del confino, fu comunque processato e condannato ma beneficiò dell'amnistia Togliatti nel 1946. Morì a Roma nel 1955.