I monarcomachi (dal grecoμόναρχος, monarca e μάχομαι, combattere) furono quegli scrittori politici che tra la seconda metà del XVI e i primi decenni del XVII secolo si opposero alla trasformazione dell'impianto monarchico in senso assolutistico e sostennero il diritto del popolo alla ribellione (fino alla messa a morte del monarca) contro quei sovrani che vessavano la vita spirituale dei sudditi, conculcando i diritti religiosi dei liberi fedeli.
«Ma benché in tali disposizioni [Publicola] si fosse dimostrato popolare e moderato legislatore, per i reati particolarmente gravi stabilì pene esagerate. Promulgò una legge per cui si poteva uccidere senza processo [senza il ricorso alla provocatio ad populum] chiunque aspirasse alla tirannide: il suo uccisore non rispondeva dell'omicidio se era in grado di fornire prove del reato dell'ucciso. Poiché essendo impossibile che chi tenta tali cose possa farlo di nascosto, e altrettanto impossibile che chi non si nasconde diventi così formidabile da non poter più essere chiamato in giudizio, [Publicola] concesse in questo caso a chi ne avesse l'autorità di anticipare contro il reo quella sentenza che la natura stessa del reato rendeva ineseguibile più tardi.»
Quest'idea sarà recuperata nel medioevo e troverà una prima teorizzazione in Giovanni di Salisbury. Egli nel Policraticus[2] (1159) sostiene, seppur in maniera ambigua e non senza ripensamenti, la legittimità della ribellione contro gli abusi del monarca:
(LA)
«Porro tyrannum occidere non modo licitum est sed aequum et iustum. Qui gladium accipit, gladio dignus est interire.»
(IT)
«Inoltre, l'uccisione di un tiranno non è solo un atto lecito, bensì auspicabile e giusto. Chi si impossessa (illegittimamente) della spada, è degno di perire per questa.»
I monarcomachi ritenevano che ogni regime politico dovesse fondarsi sul consenso del popolo, quandanche il potere del sovrano (prerogativa popolare trasferita pro tempore al sovrano) dipendesse dal volere di Dio[3]. Il patto intervenuto in origine fra re e popolo sanciva la subalternità del monarca alla legge (e non poteva essere ammessa la subordinazione della legge al monarca). Emanando ogni potere da Dio, la stessa rivolta e il medesimo tirannicidio venivano giustificati dal patrocinio divino. Nel 1575 Teodoro di Bèze, che subentrò a Calvino come capo della chiesa protestanteginevrina, che sosteneva l'esistenza di un "contratto" tacito tra re e popolo che obbligherebbe il primo ad agire nel rispetto del secondo, in Du droit des Magistrats sur leurs sujets giunse a invocare l'idea dell'assassinio ispirato da Dio, dunque lecito, contro quei monarchi divenuti persecutori.[4] Un opuscolo anonimo del 1578 affermava che legittimo era il diritto del popolo a uccidere il tiranno, che sarebbe stato ottemperato solo da eletti chiamati da Dio stesso.[4]
Le Vindiciae contra tyrannos del 1579 affermavano l'esistenza di un doppio patto, tra re e popolo e Dio e l'altro tra popolo e re. In particolare il secondo patto può giustificare il ricorso al tirannicidio. Se un re non attende agli impegni di giustizia contratti col popolo è ritenuta necessaria la sollevazione del popolo e la deposizione del despota da parte dei "guardiani dei patti" (l'istituto monarchico si riduceva, come in Hotman, a incarico magistratuale voluto da Dio a beneficio degli uomini).[4]
Del 1590 è invece uno scritto riconducibile agli ambienti della lega cattolica francese, il Justa de reipublicae christianae in reges impios et haereticos auctoritate, in cui forse un dissidente inglese sosteneva la necessità della fine della monarchia ereditaria e l'elezione popolare dei sovrani scelti dalla Chiesa. Il sovrano autore di atti repressivi contro la religione sarebbe dovuto giustamente perire per mano del popolo. Più moderata era invece la posizione di Bellarmino che affermava la deposizione del monarca laddove necessario, fermo restando che vi intervenisse il Papa in persona, ma solo limitatamente ai casi in cui veniva messa in pericolo l'anima dei credenti.
Episodi famosi di tirannicidio
Famoso sostenitore delle teorie monarcomache in campo cattolico fu il monaco Jacques Clément il quale il 1º agosto 1589, a Saint-Cloud assassinò Enrico III di Francia per vendicare l'uccisione del capo della fazione cattolica Enrico di Guisa, responsabile di una sommossa che gli aveva sottratto il controllo di Parigi, e il cambio di fronte del sovrano passato all'alleanza con il leader dello schieramento protestante Enrico IV di Francia. Questi gli subentrerà come Enrico IV di Francia dopo la pubblica conversione al cattolicesimo.
Lo stesso Enrico IV, il 14 maggio 1610, dopo diversi tentativi di assassinio subiti negli anni, venne ucciso a colpi di pugnale da François Ravaillac, un fanatico cattolico conversofogliante, il quale temeva che il re intendesse muovere guerra contro le potenze cattoliche e quindi contro il papa Paolo V, mentre si recava in carrozza all'arsenale della Bastiglia.[5][6]
^il Policraticus fu scritto prima della morte di Becket e l'intento non fu quello di vendicarlo, bensì di ammonire lui ed il sovrano (Enrico II) dai rischi della loro condotta.
^Simonutti, Luisa, Contro la servitù delle coscienze. Assolutisti e monarcomachi di fronte alla tolleranza nella Francia d'Ancien régime, Scienza e politica. N. 21, 1999, Bologna : CLUEB, 1999.
^abc Koenigsberger H.G., Mosse G.L., Bowler G.Q., L'Europa del Cinquecento, Milano, RCS, 2004. pp. 407-411