L'Alessandra (in greco antico: Ἀλεξάνδρα?) è un poema in trimetri giambici, che narra le profezie dell'eponima figlia di Priamo, Alessandra (ma meglio nota come Cassandra, Κασσάνδρα), sulla distruzione di Troia e sulle sue conseguenze.
La scarsità di notizie e la loro ambiguità rendono incerta la sua datazione e quella della sua opera, argomento, questo, su cui si sono esercitati gli studiosi che, tuttavia, non sono pervenuti a una soluzione condivisa e univoca del problema.
Lo sviluppo della narrazione, poi, piuttosto che fare chiarezza sull'attribuzione dell'opera ha contribuito ad alimentare dubbi e a sollecitare ipotesi diverse.
La descrizione di avvenimenti storicamente molto lontani tra loro, che non avrebbero potuto essere conosciuti da Licofrone di Calcide, ha fatto pensare anche a qualche successiva mano poetica che ha inserito i passi controversi.
Agli studiosi che individuano nel poeta della Pleiade l'autore dell'Alessandra se ne oppongono altri che, per i temi trattati specialmente per quelli relativi alla nascita e al successo di Roma, propongono un Licofrone più recente, profondo conoscitore dello scenario geopolitico italico.
Fra le altre è proprio la profezia sul successo di Roma che non avrebbe potuto essere descritta da un Licofrone ospite di Tolomeo. La predizione, seppure con il linguaggio ermetico tipico di tutta l'opera, che un discendente dei troiani, Enea, avrebbe dato inizio a una nuova potenza non poteva essere fatta alla fine del III secolo a.C.
«Un giorno i discendenti, trofei da primo premio nelle lance, renderanno di nuovo illimitata la gloria dei miei avi conquistando potere e signoria sulla terra e sul mare.»
«Troppo antico appare per esserne l'autore il poeta delle Pleiadi, di cui è notizia nel Lessico di Suida; inafferrabile un secondo Licofrone, spettatore della potente ascesa di Roma.»
Anche il particolare stile del poema gioca a favore di un Licofrone più recente, lontano dal circolo alessandrino dei poeti della Pleiade, in quanto caratterizzato da
«[…] una esuberanza barocca che sembra condurre alle estreme conseguenze le premesse dell'arte nuova […]. La tavolozza del poeta è ricca di colori, ma le sue intemperanze sono la spia di una dismisura che esula dalla poetica alessandrina e ne fa presagire il tramonto.»
L'opera è costituita da un monologo di 1474 trimetri giambici che può essere idealmente suddiviso in tre momenti narrativi abbastanza autonomi l'uno dall'altro, legati tuttavia da un'unica voce vaticinante, quella di Alessandra.
Nel primo, versi 31-364, sono descritti gli avvenimenti relativi alla guerra di Troia, le sue cause, la distruzione della città-stato e gli attori che ne furono protagonisti.
Nel secondo, versi 365-1282, particolarmente importante dal punto di vista storico-geografico, sono descritte le conseguenze dirette e indirette della distruzione di Troia, le peripezie dei greci nel ritorno alle loro case, la diaspora di molti di loro nel bacino occidentale del Mediterraneo, la sua colonizzazione e gli eventi che riguardarono i profughi troiani.
Nel terzo, versi 1283-1450, sono descritte la cause della contrapposizione tra l'Europa e l'Asia sotto l'aspetto etnico-geopolitico e le loro guerre reciproche.
Primo momento
Alessandra aveva avuto da Apollo, che di lei si era invaghito, il dono della profezia, ma, per non aver voluto cedere alle sue voglie, ne era stata condannata a non essere creduta.
Si aggiungeva così al dramma della preveggenza di eventi luttuosi la tragedia personale della consapevolezza della propria impotenza.
«Ma perché abbaio da tanto tempo ai sassi che non sentono, facendo risuonare un vuoto strepito, infelice che sono, e all'onda muta, alle valli selvose spaventevoli? Il dio di Lepsia escluso dal torvo desiderio del mio letto, mi privò di credito e infuse bugiardo suono alle parole mie e alla preveggente veridica sapienza dei responsi.»
Il poeta pone questo lamento non all'inizio dell'opera, come il ritmo narrativo avrebbe richiesto, ma nel suo epilogo quasi a volerlo nascondere, come fosse una colpa.
I vaticini di Alessandra fatti in prima persona sono riferiti, si potrebbe dire in maniera virgolettata, dal servo che Priamo, il padre, le aveva posto a custodia.
Alessandra, evocata la prima distruzione di Ilio a opera di Ercole, descrive gli eventi che portarono alla guerra di Troia soffermandosi sul rapimento di Elena da parte di Paride delle cui personalità traccia una sapida analisi usando in senso spregiativo, contemporaneamente, stilemi drammatici e comici. Definisce Paride prima tizzone alato, metafora di rapace nell'atto di ghermire, poi natica bianca per indicarne l'effeminatezza, mentre riserva a Elena prima l'epiteto colomba per significarne la lascivia, poi cagna di Pefno, in un gioco linguistico di contrasti tipico del poema.
«Vedo il tizzone alato, mentre corre a rapire la colomba, a rapire la cagna di Pefno, che l'uccello rapace di palude generò nella crosta del guscio d'uovo.»
Elena, la causa di tutti i mali assieme a Paride, è nella lettura licofronea una donna lussoriosa dai cinque mariti, mentre Paride, un imbelle, è un rapace dai tre testicoli, in una metafora che descrive visivamente la sua azione predatoria e il suo appetito sessuale smodato.
Alessandra, dopo averne individuato l'origine nell'azione combinata di Paride ed Elena, vede la spedizione punitiva greca contro Troia che descrive con tono freddo, sempre con metafore e similitudini animalesche, mentre usa accenti accorati e sentiti per l'uccisione di Ettore e nel pianto per la propria sorte disgraziata.
«Ed io, la sventurata, che rifiuto le nozze tra le mura della mia cella verginale di pietra senza tetto, io, inabissata in una casa senza copertura, in un carcere oscuro, io che respinsi dal mio letto di nubile il dio che mi voleva ardentemente, il dio dei semi, Ptoo, delle stagioni, per conservare intatta la verginità fino all'alta vecchiaia sull'esempio di Pallade, la Lafria, dea delle porte, che detesta l'unione delle nozze, io sarò tratta con violenza dal becco-forma adunca al letto del rapace sanguinario, come una colomba impazzita, mentre invoco a gran voce, perché mi aiuti, la Signora dei buoi e dei gabbiani, vergine che difende dagli stupri»
La dea, Atena, non potrà aiutarla e il suo simulacro, il Palladio, distoglierà lo sguardo girando gli occhi verso il soffitto per non vedere lo stupro che si consumava sotto di sé[2].
In questi versi il poeta attinge alla poesia come non farà più nel resto dell'opera[3].
Secondo momento
Dalla predizione di questo scempio, che può essere considerato la chiusura del primo momento narrativo, Alessandra vaticina i nostoi, le traversie del ritorno dei Greci verso la propria patria, resi ancora più gravi e luttuosi dalla vendetta degli dei a causa del loro comportamento sacrilego.
Molti moriranno in maniera atroce, altri saranno costretti a vagare a lungo prima di ritrovare la propria casa dove li colpirà ancora la collera degli dei.
«Uno sciame di uomini assai fitto -non si potrà contarli!- dato in pasto ai cetacei, file e file di denti nelle fauci, troverà sepoltura nelle viscere.»
(Licofrone, Alessandra, traduzione di V. G. Lanzara, v. 412.)
Altri troveranno morte violenta in terre straniere, dove getteranno inconsapevolmente il seme di una nuova civiltà, la Magna Grecia.
All'odiato Ulisse predice un destino amaro e umiliante al tempo stesso. Ritroverà la casa ma in essa non una moglie devota e fedele, macerata dall'attesa, ma una meretrice lussuriosa, dissipatrice del patrimonio del marito nelle orge con i Proci.
«Arriverà al porto di Reitro e alle rocce sporgenti del Nerito, ma per vedere messo sottosopra il tetto suo dai lussuriosi adulteri e la sua donna come una baccante che dà fondo alla casa e fa la prostituta in grande stile riversando in banchetti le fortune del pover'uomo.»
Come nemesi finale di una vita sbagliata gli riserva una morte ingloriosa per mano di Telegono, il figlio avuto da Circe, che lo ucciderà non con un'arma ma con la spina di un pesce.
Dopo avere predetto una serie di terribili sventure per i distruttori di Troia, come la fine di Eleferone[4], di Nauplio[5], di Idomeneo[6], la morte di Agamennone e anche la propria[7], scannati dalla gelosia di Clitennestra, a sua volta uccisa da Oreste, con metafore in cui il mito si confonde con la storia, chiude il secondo momento in positivo con Enea che perpetuerà l'onore e la gloria di Troia fondando una nuova potenza, Roma, la seconda Ilio.
«Un giorno i discendenti, trofei da primo premio nelle lance, renderanno di nuovo illimitata la gloria dei miei avi conquistando potere e signoria sulla terra e sul mare»
Alessandra apre il terzo momento, la parte più interessante dal punto vista geopolitico, con la descrizione metaforica delle differenze che oppongono l'Asia e l'Europa, personificate l'una nella madre di Prometeo, l'altra in quella di Sarpedone e le guerre che reciprocamente si infliggeranno in un conflitto senza fine.
Vede ineluttabili queste guerre tra i due continenti che tutto separa come se tra di loro vi fosse un baratro incolmabile.
«Che c'è in comune tra l'infelice madre di Prometeo e la nutrice di Sarpedone che il mare di Elle e le rupi Simplegadi separano e Salmidesso e l'acqua inospitale della Scizia e il Tanai con gli aspri ghiacci che taglia, restando intatto, a mezzo col suo corso la palude, diletta oltre misura ai Meoti, che lamentano geloni ai piedi»
Prevede il rapimento di Io come primo casus belli a cui ne seguiranno altri in un crescendo di vendette e ritorsioni reciproche. Anche la spedizione degli Argonauti[8] è espressione del conflitto immanente tra i due continenti e qui inserisce il mito del vello d'oro e quello delle Amazzoni[9] che devastarono l'Attica.
Vaticina la conquista da parte dei Lidi dell'Ausonia, l'Italia, soffermandosi sulla conquista di Pisa e dell'Umbria.
Descrive il disastroso attacco di Serse alla Grecia risoltosi in un'umiliante disfatta in cui il suo esercito in fuga è costretto per la fame a cibarsi delle cortecce delle querce mentre Serse stesso è rappresentato come uno stolto dall'animo di fanciulla terrorizzata dalle armi.
Licofrone, in questo, ha presente il testo di Erodoto a cui sembra rifarsi.
«se non ne trovavano [cibo], mangiavano l'erba che spuntava dalla terra, agli alberi sia coltivati che selvatici, tagliavano la corteccia e strappavano le foglie e le divoravano, senza lasciare niente, e lo facevano per la fame»
Alessandra termina le sue profezie con l'ultima, che è anche un enigma, sulla venuta, dopo sei generazioni, di un suo discendente, quindi di stirpe troiana, forte come Alessandro Magno, che pacificherà il Mediterraneo.
«Gareggiando con lui [Alessandro] per forza bellica uno del sangue mio, gran lottatore, che nascerà tra sei generazioni, giunto a sancire i patti sul mare e sulla terra, […]»
Tutte le ipotesi, nell'oscurità della profezia, rimangono tuttavia tali, mere esercitazioni storico-letterarie.
Lingua e stile
L'Alessandra, un'opera particolarmente difficile e al tempo stesso affascinante, ha diviso i critici sulla sua valutazione poetica.
Tutti concordano nel riconoscervi ricercatezza stilistica, originalità, uso sapiente della parola, conoscenza profonda dei miti, erudizione storica, tensione emotiva che sconfina nella passionalità, ma divergono sul giudizio poetico.
Prezioso repertorio di mitografia e geografia, una incessante esibizione di riposta dottrina: nella quale, ovviamente, la poesia sta appena a pigione, tranne qualche raro e breve momento, come ad esempio la descrizione della violenza usata a Cassandra.[3]
Il poeta vuole stupire, meravigliare, toccare le corde più riposte dell'animo unendo con grande maestria l'allusione, spesso paradossale, al grottesco anche triviale, la costruzione tragica a termini mutuati dalla commedia, la metafora alla rappresentazione più cruda, quasi sempre con compiaciuta sottolineatura dell'orrido, senza mai nominare direttamente i protagonisti degli avvenimenti descritti ma nascondendoli nella nebbia dei miti.
«Lui nel bagno cercando vie d'uscita senza scampo, avvolto in una rete chiusa al collo da un laccio esplorerà alla cieca con le mani gli orli cuciti, sprofondando nel tino sotto un coperchio caldo e spruzzerà col suo cervello il tripode e il bacile, colpito dalla scure ben tagliente proprio al centro del cranio.»
Questa la descrizione dell'assassinio di Agamennone ad opera di Clitennestra, in cui con crudo e cupo realismo dipinge una scena violenta e sanguinaria, quasi da macelleria. I protagonisti non sono nominati, spetta al lettore identificarli con gli indizi messi a disposizione: il bagno, la rete che lo avvolge e a cui cerca di aggrapparsi, il tino in cui sprofonda, la materia cerebrale spruzzata attorno per il colpo di scure infertogli al centro del cranio.
Il passo continua con la descrizione dell'uccisione di Alessandra usando sempre lo stesso registro truce anche se ingentilito nel finale dall'anima di Alessandra che cerca lo sposo che non sente, Agamennone.
Truculento, spesso grandguignolesco, s'impossessa del lettore scaraventandolo nella scena come testimone oculare. Emblematica in questo senso la descrizione del mito di Pelope fatta con un realismo che diventa macabro.
«Una volta a suo nonno la dea di Enna Ercina Erinni Turia Spadaccina tra i denti triturò l'osso del braccio. Lo spolpò, lo prese su dal piatto e nella gola gli dette sepoltura.»
Da un'attenta analisi dei versi e dalla conoscenza del mito si intuisce la figura di Pelope, mai nominato, e di Demetra, dai molti attributi, che ne mangiò la spalla. La descrizione dell'azione non lascia spazio all'immaginazione, anzi è resa ancora più truculenta dagli ultimi versi che apparentemente sembrano mitigarla.
L'insulto assume coloriture comiche anzi grottesche, colpisce provocando non il sorriso ma la risata crassa.
«Il lessico dell'Alessandra è ricco e molteplice, non esclude l'osceno, il volgare, il linguaggio da trivio, da bordello. […] Licofrone ignora il sorriso; la sua comicità greve fino alla crudeltà, sconcia fino all'osceno, si sovrappone alle immagini deformandole senza possibilità di ritorno.[11]»
Metafore
Tutta la narrazione si svolge per metafore e perifrasi che, con similitudini animalesche, fanno riferimento alla mitologia dissimulando così attori ed eventi.
Il lettore è sottoposto a uno sforzo intellettuale continuo di comprensione che solo una robusta conoscenza dei miti può aiutare, con molta difficoltà e spesso con esiti incerti.
In questo senso si parla di oscurità del poema in cui
«[…] la rappresentazione criptica del mito e della storia è soprattutto gara di sottigliezza e di erudizione, sfida al lettore, gioco intellettualistico.[12]»
Gli attori della scena non sono mai nominati e individuati esplicitamente ma nascosti da sembianze e similitudini animalesche. Gli animali delle metafore sono scelti con particolare attenzione alle caratteristiche fisiche e morali dei soggetti di cui vogliono essere l'idealtipo. Anche l'azione o le sue modalità sono spesso sintetizzate dalla figura di un animale che le rappresenta.
Il poeta sceglie nel suo vasto bestiario l'animale più adatto a seconda che voglia muovere al riso, impaurire o esaltare, lasciando spesso il lettore nell'incertezza sulle sue reali intenzione, ma sempre nello stupore.
«Tre folaghe avranno sepoltura nelle valli del Cercafo non lontano dalle acque dell'Alento: uno di loro, il cigno del dio Molosso, del dio Cipeo Coito, in errore sui figli della scrofa, quando, tratto il rivale a rivelare, nella prova dei fichi, la sapienza, e sbagliando, secondo i vaticini, dormirà il sonno che gli fu assegnato»
Era abbastanza facile per il lettore che ne conosceva i miti individuare nelle folaghe i tre capi acheiCalcante, Idomeneo e Stenelo, miti che seppure nella loro stringatezza lasciano pochi dubbi specialmente per la prima folaga, Calcante.
Calcante, cigno di Apollo Coito, il generatore, che ne aveva avuto in dono la capacità divinatoria guidò i greci fino a Troia.
«Calcante, figlio di Testore, il migliore fra i vati, che conosceva il presente e il futuro e il passato, e sulle navi fu guida agli Achei fino a Ilio con l'arte sua di indovino, che gli donò Febo Apollo»
Licofrone descrive, con estrema e realistica sintesi, la fine di Calcante a cui era stata predetta la morte se avesse incontrato un vaticinatore più bravo. Calcante morì, infatti, perché nella sfida profetica col vate Mopso non riuscì a indovinare quanti figli avrebbe avuto una scrofa partoriente mentre Mopso indovinò quanti fichi c'erano su un albero.
I versi a volte diventano struggenti, pronti alla commozione a cui sollecitano il lettore. La metafora diventa dolce anche se continua a occhieggiare al truce, le similitudini contrapposte rivelano figure lontane e differenze insanabili. L'azione si svolge veloce e disvela appena un intreccio amoroso che la complica pur rendendola emotivamente intrigante come nella descrizione della morte di Troilo per mano di Achille, il nemico, amante non corrisposto.
Il gioco delle parole, sapientemente scelte, crea figure retoriche che confondono e si trasformano in enigma, la metafora della passione come combattimento amoroso che subito si trasforma in sangue versato realmente.
«Ahi, ahi, piango anche te, cucciolo, ramoscello di latte, dolce abbraccio dei tuoi fratelli. Tu coglierai il dragone selvaggio con un'arma di fuoco, un incantesimo, lo ghermirai, ma resterà colpito poco tempo nei lacci inestricabili, senza il tuo amore lo abbatterai, ma non ti ferirà, e bagnerai l'altare di tuo padre con la gola tagliata.»
La giovinezza di Troilo, evidenziata dall'epiteto cucciolo ed enfatizzata dalla similitudine al ramoscello di latte, si scontra con la furia selvaggia di Achille, il dragone, sconfitto nell'amore ma macellatore dell'amato che non lo ricambia.
Il poeta contrappone mirabilmente in un'unica azione la violenza della passione a quella del combattimento reale che si conclude con l'uccisione di Troilo, riuscendo a coinvolgere in questo gioco di metafore la sensibilità dello spettatore, non più tale bensì partecipe.
Poeta immaginifico, Licofrone si serve del mito che piega alla propria arte, pur rimanendovi aderente, per colpire emotivamente il lettore di cui penetra le difese, usando
«[…] tutti i toni di un registro stilistico non limitato da pregiudizi conformistici per ottenere notevoli effetti speciali[13]»
L'Alessandra è stata variamente giudicata, poema erudito, documento storico-mitologico, opera enigmatica e oscura, per rimanere comunque
«bellissima e misteriosa, […] forse l'opera più sofisticata e singolare che ci sia giunta dal multiforme territorio della poesia ellenistica, frutto di un'esasperante ricerca di erudizione accurata.»