La rivolta che portò all'instaurazione della Repubblica scaturì dalle proteste e tumulti dei contadini, soggetti ancora a potenti proprietari terrieri che intendevano conservare i privilegi detenuti ai tempi del fascismo[2] e più in generale sin dai tempi post-unitari con la riforma fondiaria che fece ottenere ai latifondisti gran parte delle terre già di proprietà della Chiesa tramite la legge del 7 luglio 1866, che dispose l'incameramento e la "vendita" al libero commercio e alla coltivazione dei beni della manomorta ecclesiastica.
I prodromi
Nel gennaio del 1944 il prefetto di Reggio Calabria nomina Pasquale Cavallaro sindaco di Caulonia, paese in cui si faceva sempre più aspro lo scontro tra braccianti e agrari, a causa delle misere condizioni economiche nelle quali versavano all'epoca i contadini.[2]
Per le strade del paese, alcuni gruppi di "partigiani" del Sud capeggiati dal figlio del sindaco, Ercole Cavallaro, iniziano a infliggere violenze: viene assaltata la cascina dell'ex console fascista Nestore Prota; nella stessa occasione viene ferito Pasqualino Roda, un ragazzo che si trovava lì per caso; l'agricoltore Antonio Ocello, accusato di aver messo su un gruppo di reduci fascisti al Nord, viene sottoposto alla roulette russa; il parroco don Giuseppe Rotella, che aveva preso posizione contro le violenze, viene picchiato a sangue con mazze ferrate.[3]
Lo svolgimento
Il 5 marzo 1945, in seguito a queste angherie, Ercole Cavallaro viene denunciato e arrestato.
Le pressioni del padre per liberare il figlio danno il via alla rivolta del paese: il giorno seguente lo stesso Cavallaro occupa la sede del telegrafo, l'ufficio postale e la caserma dei Carabinieri Reali con un gruppo di fedelissimi.
Nel momento in cui sul campanile della chiesa viene issata la bandiera rossa con falce e martello viene proclamata la "Repubblica Rossa di Caulonia" e immediatamente il PCI viene messo al corrente con un telegramma.[3][4]
In tutto il paese, intanto, si susseguono eventi raccapriccianti ad opera dei cosiddetti "caulonisti": viene torturato e frustato il notaio, costretto a portare scalzo carichi di sassi pesanti; stessa sorte per l'ingegnere Ilario Franco, le cui ferite vengono tamponate con aceto e sale; alcune donne, tra cui Anna Curtale, Rosa Petrone, Maria Murdocco e Maria Mazza, vengono violentate e stuprate; anche l'operaio Vincenzo Niutta, il calzolaio Raffaele Lucano e il giornalaio Gabriele Lavorata subiscono violenze da parte dei rivoltosi con la coccarda rossa sul petto.[3]
Prima dell'arrivo delle forze di polizia da Reggio Calabria alcuni "caulonisti", dopo essere entrati nella casa del parroco don Gennaro Amato (vecchia conoscenza del sindaco Cavallaro ai tempi del seminario)[2], lo uccidono[5] con una scarica di mitra.[3]
La fine della Repubblica rossa
La rivolta si estese in poco tempo anche ai comuni limitrofi, anche se durò appena cinque giorni, poiché il 9 marzo venne sedata.
Ciononostante, la risonanza in campo internazionale fu grande, tanto che Stalin durante una trasmissione di Radio Praga disse che «ci voleva un Cavallaro per ogni città».[6]
In quel breve lasso di tempo i contadini, protagonisti della rivolta, proclamarono più volte la repubblica e istituirono un esercito popolare e un tribunale del popolo.
Anche Corrado Alvaro nel suo libro Mastrangelina descrisse così gli avvenimenti:[6]
«Sfilavano in massa cantando inni, sventolando cartelli, mulinando bastoni. [...] Tutti insieme si sentivano giovani, padroni della strada, in una raffigurazione storica, in una scena imitata dai libri che avevano letto.»
Inizialmente venne sostenuta dal PCI locale; successivamente, dopo l'uccisione del parroco Gennaro Amato, i rivoltosi vennero isolati e rapidamente disarmati. Il 15 aprile 1945 Cavallaro si dimise da sindaco.
Il processo
Il 23 giugno 1947, i 365 partecipanti alla sommossa furono accusati davanti al tribunale di Locri di: costituzione di bande armate, estorsione, violenza a privati, usurpazione di pubblico impiego e omicidio.[7]
Grazie all'amnistia Togliatti quasi tutti riuscirono a evitare la condanna tranne tre persone: Ilario Bava e Giuseppe Menno, responsabili dell'uccisione di don Gennaro Amato, e Pasquale Cavallaro, mandante dell'omicidio.[4] Subito dopo il processo decine di contadini vennero picchiati a sangue e quattro lavoratori morirono per le torture e le violenze subite.[7]
Note
^Traduzione: «Poi durante la guerra / non si sa da dove / saltò fuori un sindaco sovietico / amministrò una repubblica rossa / che quasi subito finì»
^Secondo quanto scritto da Maurizio Ferrara su l'Unità, l'assassino avrebbe ucciso il prete per motivi di gelosia: si supponeva che il don Gennaro avesse una relazione sentimentale con la sorella dell'omicida; Gabriele Pedullà su Il Sole 24 Ore attribuisce al parroco una relazione con la moglie di Ilario Bava.