Puruṣa (devanagari पुरुष) è un termine della lingua sanscrita dal significato di "essere umano" o anche "maschio"[1]. Nella letteratura sacra dell'induismo il termine è stato utilizzato in tre principali accezioni:
"Uomo cosmico": l'essere primordiale increato che, secondo i Veda, fu sacrificato per dare origine al mondo manifesto.
"Spirito": uno due princìpi eterni della realtà, secondo la visione del Sāṃkhya.
"Essere supremo": usato in associazione coi termini para, parama o anche uttama come appellativo di alcune divinità nelle correnti devozionali, soprattutto le krishnaite.[2]
L'Uomo cosmico
Nell'inno (X, 90) del Ṛgveda, detto anche Puruṣa sūkta, un inno del tardo periodo vedico, il Puruṣa è descritto come tanto vasto da coprire e lo spazio e il tempo; ma di questo essere immenso, che può essere visto come la personificazione della realtà ancora immanifesta, è visibile soltanto un quarto. Da questo quarto ebbe origine innanzitutto il principio femminile (virāj) e quindi l'umanità. Il Puruṣa venne poi steso per terra dai deva e offerto in sacrificio secondo il rito, affinché avessero origine il mondo, gli animali, le caste, altri dèi, e i Veda stessi:[3]
«Da questo sacrificio, compiuto fino in fondo, / si raccolse latte cagliato misto a burro. / Da qui vennero le creature dell'aria, / gli animali della foresta e quelli del villaggio. // Da questo sacrificio, compiuto fino in fondo, / nacquero gli inni e le melodie; / da questo nacquero i diversi metri; / da questo nacquero le formule sacrificali.»
(Ṛgveda X, 90, 8-9; citato in Raimon Panikkar, Op. cit., 2001, p. 101)
Il sacrificio è dunque l'atto col quale il mondo viene creato: l'Uomo cosmico, il Puruṣa, sacrifica una parte di sé per dare origine all'umanità e all'universo. Per tre quarti però il Puruṣa resta «in alto», trascendente, privo del suo quarto immanente, ed è tramite il sacrificio stesso (yajña) che l'umanità restituisce al Puruṣa, in quello che come fa notare il teologo Raimon Panikkar, è un dinamismo duplice.[3]
«Con il sacrificio gli Dei sacrificarono al sacrificio. / Quelli furono i primi riti stabiliti. / Queste forze salirono fino al cielo / dove risiedono gli antichi Dei e altri esseri.»
(Ṛgveda X, 90, 16; citato in Raimon Panikkar, Op. cit., 2001, p. 101)
Spirito
Nel Sāṃkhya, una delle sei (darśana) ritenute ortodosse nell'induismo sebbene non teista, con puruṣa si intende uno dei due princìpi ontologici della realtà, essendo l'altro la prakṛti. Puruṣa è usualmente tradotto con "spirito"[4], "anima"[5], o anche "Sé"[6], ed è un concetto pluralistico; prakṛti è di norma tradotto con "materia" o anche con "natura"[7]. Prakṛti e puruṣa sono due princìpi eterni, increati e assolutamente separati l'uno dall'altro, sebbene sia proprio la "vicinanza" fra loro a dare origine alle trasformazioni dell'universo, inteso come materiale e mentale, all'evoluzione della prakṛti stessa cioè. Mentre quest'ultima è priva di coscienza, il puruṣa può essere visto invece come pura coscienza, principio frammentato in una infinità di monadi, di anime individuali che vengono loro malgrado coinvolte nelle trasformazioni della prakṛti.[8]
Da solo o in associazione con alcuni aggettivi come para ("superiore"), parama ("altissimo"), uttama ("supremo"), il termine puruṣa è spesso utilizzato nei testi della letteratura sacra devozionale per riferirsi al Dio. Per esempio, in uno dei testi sacri della tradizione vaiṣṇava leggiamo:
Sempre nell'ambito della tradizione vaiṣṇava, il devaNārāyaṇa, che sarà successivamente assimilato a Visnù, è identificato con il Puruṣa nello Śatapatha Brāhmaṇa.[9]