Il Governo Roman I è stato il primo governo della Romania post-comunista. Nato nel dicembre 1989 come governo provvisorio, fu guidato dal primo ministro Petre Roman.
Pur carente di esperienza specifica, il 26 dicembre 1989 Petre Roman fu nominato da Iliescu per il ruolo di primo ministro del governo provvisorio, incarico concepito come prevalentemente amministrativo, mentre le strategie politiche rivenivano interamente al CFSN[1][2]. Le indicazioni sui nomi dei ministri vennero elaborate dal Consiglio. Come testimoniato dallo stesso Roman, infatti, egli fece solamente due proposte: Gelu Voican Voiculescu e Mihai Drăgănescu, entrambi con l'incarico di vice primo ministro[3]. Il governo Roman I fu costituito essenzialmente da tecnocrati e figure che avevano avuto un ruolo politico attivo nei quadri del regime e del Partito Comunista Rumeno. L'obiettivo principale del nuovo gabinetto era quello di gestire l'amministrazione del paese fino a nuove elezioni[2][4][5][6].
Già nei primi mesi dalla nomina il governo si trovò a gestire numerose manifestazioni di protesta, che crebbero d'intensità dopo la decisione del CFSN di trasformarsi in un partito politico, il Fronte di Salvezza Nazionale (FSN), che avrebbe concorso alle elezioni del mese di maggio. Per venire incontro alle richieste dei gruppi politici d'opposizione, nel febbraio 1990 il CFSN fu ridenominato Consiglio Provvisorio di Unione Nazionale e ammise anche rappresentanti degli altri partiti. Pur riformato, tuttavia, il reale potere rimaneva soprattutto al gruppo costituitosi intorno ad Iliescu, che controllava la maggioranza, il governo e la totalità della pubblica amministrazione e degli enti di stato[7][8][9].
Il 28 gennaio 1990 i partiti d'opposizione, che contestavano il FSN considerandolo un omologo del Partito Comunista Rumeno, organizzarono per la prima volta un evento di protesta che fu criticato e represso con la violenza dai sostenitori del partito di maggioranza, principalmente operai e minatori. Il primo ministro Petre Roman dovette persino intervenire personalmente per salvare dal linciaggio il leader del Partito Nazionale Contadino Cristiano Democratico, Corneliu Coposu. Le successive manifestazioni antigovernative del 18 febbraio ebbero un epilogo analogo. Un ulteriore raduno promosso dall'opposizione ebbe luogo in aprile, proseguì con l'occupazione di Piazza Università a Bucarest e ricevette il biasimo delle istituzioni. Iliescu, nello specifico, descrisse i partecipanti come hooligans[9].
Nello stesso mese di aprile il governo espresse la propria contrarietà al rientro in patria dell'ex monarca Michele I, in quanto secondo le autorità la sua presenza avrebbe potuto portare a incidenti che avrebbero messo in pericolo la stabilità della già precaria vita politica rumena[10].
Problemi di ordine pubblico si verificarono anche nella città di Târgu Mureș, in Transilvania, area caratterizzata dalla presenza di una folta comunità ungherese. In un clima generale di disordine, tra il 19 il 21 marzo 1990 avvennero degli scontri tra le comunità ungherese e rumena che causarono 5 morti e 278 feriti. Per riprendere il controllo della situazione il governo si ritrovò costretto a fare intervenire l'esercito, che bloccò l'accesso alla città e disperse i manifestanti[9][11]. Il governo istituì una speciale commissione d'inchiesta, condannando le violenze e avanzando indirettamente l'ipotesi che queste fossero state favorite dall'Ungheria, alludendo agli interessi territoriali sulla regione da parte delle autorità di Budapest[12][13]. I termini del complesso dibattito con i vicini magiari si basarono sull'estensione dei diritti per le minoranze, richiesti dal governo ungherese, e sul mantenimento dei confini territoriali, argomento sostenuto dalla Romania[12][13].
Sostituzione del ministro della difesa
Nel febbraio 1990 si aggiunse un'ulteriore fonte di tensione, quando un gruppo composto da militari si riunì in un movimento a carattere sindacale, il Comitato d'azione per la democratizzazione dell'esercito (Comitetul de Acțiune pentru Democratizarea Armatei, CADA), che chiedeva misure drastiche per la riforma delle forze armate.
Nominato ministro della difesa nel 1989, il generale Nicolae Militaru, figura con un passato nel GRU, congedò diversi ufficiali anziani rimpiazzandoli con altri che avevano ricevuto addestramento in Unione Sovietica, deludendo le aspettative del CADA. Il comitato chiese il ritorno in funzione degli espulsi e azioni contro la condotta di Militaru, ritenuta dittatoriale[2][12][14].
Temendo una rivolta, il 16 febbraio il governo sostituì Militaru con il generale Victor Stănculescu[2][14].
La netta superiorità istituzionale e mediatica del FSN rispetto agli altri partiti consentì alla formazione di ottenere un plebiscito alle elezioni parlamentari (66%) e presidenziali (Iliescu vinse con l'85%) del 20 maggio 1990.
Legittimato dal voto popolare, nel corso della seduta dell'11 giugno 1990, cui prese parte anche Iliescu, il governo decise di disperdere i manifestanti accampati da mesi in Piazza Università[15]. La polizia intervenne il 13 giugno. Gli scontri tra le forze dell'ordine e i manifestanti, tuttavia, non portarono ad una soluzione definitiva e, in un clima di caos generale, nella mattina del 14 giugno il ministro degli interni Mihai Chițac fu sollevato dall'incarico e sostituito da Doru Viorel Ursu[16][17]. Per venire a capo della crisi, Iliescu chiamò a raccolta a Bucarest tutti i corpi sociali che potessero mettere fine alle manifestazioni. L'appello fu accolto dalle associazioni sindacali dei minatori della Valle del Jiu, che intervennero in massa a Bucarest e misero fine alle proteste con la violenza. La mineriada del giugno 1990 si concluse con 6 morti, centinaia di feriti e migliaia di arresti e fu macchiata dalla sospensione dei diritti umani per migliaia di persone[15][18]. L'episodio ebbe profonde ripercussioni negative sulla percezione internazionale della Romania[19][20]. Gli Stati Uniti bloccarono ogni aiuto economico, la Commissione europea sospese la negoziazione degli accordi con la Romania e il Consiglio d'Europa rinviò l'accesso del paese al 1993[15]. A posteriori Petre Roman dichiarò che aveva ordinato l'intervento della polizia quale legittima operazione volta a salvaguardare l'ordine pubblico, ma non giustificava le brutalità commesse dai minatori[3].
Il 28 giugno entrò in carica il governo Roman II, che si assumeva i compiti di tirare fuori il Paese dall'isolamento internazionale e avviare il processo di riforma dell'economia in senso capitalista[2][21].
Attività del governo
I principali atti riguardanti la democratizzazione del paese furono elaborati dal CFSN. Secondo il decreto legge 10 del 31 dicembre 1989, infatti, il governo veniva definito come l'organo supremo dell'amministrazione e aveva l'obbligo di rispettare le indicazioni del CFSN[22]. Il governo era responsabile delle proprie azioni di fronte al CFSN, che aveva il diritto di annullare le decisioni del gabinetto governativo[23].
Al fianco delle misure per lo smantellamento delle strutture repressive del regime e del sistema a partito unico, la celebrazione di libere elezioni e l'adesione al modello democratico, sul piano economico il CFSN emanò le prime leggi per l'organizzazione delle attività economiche basate sull'iniziativa privata (decreto legge 54/1990) e per il favorimento degli investimenti di capitale estero (decreto legge 96/1990). Queste, tuttavia, ebbero una portata limitata a causa dell'instabilità politica del paese[24].
Il governo preferì sostenere una posizione attendista prima di avviare un processo shock per la transizione all'economia di mercato, riforme che sarebbero state avviate solamente dal governo Roman II. La preoccupazione principale del partito di governo fu soprattutto quella di massimizzare il capitale politico tramite misure che sarebbero state accolte favorevolmente dalla popolazione[2][21]. Tra queste la riduzione della settimana lavorativa a cinque giorni e aumenti salariali per i dipendenti pubblici, specialmente per i lavoratori dell'industria, settore produttivo saldamente controllato dallo stato[2][25].
Il governo promosse il calmiere dei prezzi come in epoca socialista, mentre la valuta nazionale, il leu, fu lasciata su livelli artificiali superiori rispetto al proprio valore[21]. In modo da mantenere basso il tasso di disoccupazione, nel 1990 fu emanata una legge che permetteva un più semplice pensionamento anticipato. Ad un anno dalla sua entrata in vigore vi fecero ricorso oltre 400.000 cittadini, con il risultato di mettere in difficoltà la sostenibilità del sistema previdenziale[21].
Appoggio parlamentare e composizione
Il governo Roman I fu un governo provvisorio formato da personalità formalmente indipendenti, nato all'indomani della rivoluzione romena del 1989. Il sostegno al governo fu garantito dall'altro organo provvisorio di potere, il Consiglio del Fronte di Salvezza Nazionale (dal febbraio 1990, ridenominato Consiglio provvisorio di unità nazionale). Nel febbraio 1990 la maggioranza dei suoi componenti si affiliò al nuovo partito del Fronte di Salvezza Nazionale (FSN)[6][26].
^(EN) The May 1990 Elections in Romania (PDF), National Democratic Institute for International Affairs e National Republican Institute for International Affairs, 1991.
^(RO) Oana Stancu Zamfir, Aniela Nine, Gabriela Antoniu, Lavinia Dimancea e Dana Piciu, CPUN şi-ar fi serbat majoratul, Jurnalul Național, 11 febbraio 2008. URL consultato il 20 agosto 2016 (archiviato dall'url originale il 7 marzo 2016).
^(RO) Gabriela Gheorghe e Adelina Huminic, Istoria mineriadelor din anii 1990-1991, in Sfera Politicii, n. 67, 1999. URL consultato il 27 agosto 2016 (archiviato dall'url originale il 31 agosto 2016).
(EN) Tom Gallagher, Modern Romania. The End of Communism, the Failure of Democratic Reform, and the Theft of a Nation, New York, NYU Press, 2005, ISBN978-0-8147-3201-4.
(EN) Florin Abraham, Romania since the second world war. A political, social and economic history, Bloomsbury, 2016, ISBN978-1-4725-2629-8.