Il massacro di Sinchon è stata una strage di civili commessa presumibilmente dalle forze militari sudcoreane con l'autorizzazione dell'esercito statunitense tra il 17 ottobre e il 7 dicembre 1950, vicino alla città di Sinchon (attualmente parte della provincia dello Hwanghae Meridionale, Corea del Nord). L'evento accadde durante la seconda fase della guerra di Corea e fece ritirare l'esercito comunista dallo Hwanghae.
Le fonti nordcoreane affermano che furono uccise approssimativamente 35 000 persone dalle forze militari statunitensi e dai loro sostenitori durante un periodo di 52 giorni. Secondo tale affermazione, morì circa un quarto della popolazione di Sinchon in quel momento.[2] Il Museo delle atrocità di guerra americane, istituito nel 1958, mostra i resti e gli effetti personali di coloro che si presume siano stati uccisi nell'incidente.[3] Nelle scuole nordcoreane viene insegnato che gli Statunitensi "piantarono chiodi nelle teste delle vittime" e "tagliarono via i seni delle donne". Gli ufficiali "copiano tutte le immagini nel museo e le affiggono in tutti i corridoi delle scuole."[4]
Kim Jong-il visitò il museo nel 1998, mentre Kim Jong-un lo visitò nel novembre del 2014 per "rafforzare le lezioni anti-USA per i nostri militari e il popolo... e per unire in maniera potente i 10 milioni di soldati e persone nella battaglia contro gli Stati Uniti".[5] Nel luglio del 2015, Kim Jong-un fece nuovamente visita al museo con l'ufficiale militare Hwang Pyong-so, rivelando l'intenzione di un'ulteriore espansione dell'edificio.[6]
Affermazioni di ONG
In un rapporto preparato a Pyongyang, la non governativa e filo-comunista International Association of Democratic Lawyers (IADL) elenca diversi incidenti sospetti di omicidi di massa da parte dei soldati statunitensi a Sinchon.[7] Inoltre, sostengono che le truppe americane abbiano decapitato più di 300 nordcoreani usando le spade dei samurai giapponesi, e che la US Air Force abbia utilizzato armi batteriologiche durante la guerra in Corea. Affidandosi alle testimonianze orali dei nordcoreani, il rapporto IADL afferma che il massacro era stato supervisionato da un generale "Harrison" o "Halison"; un apparente riferimento a William Kelly Harrison, Jr., accusato personalmente per aver condotto la maggior parte delle atrocità. Il loro rapporto afferma che Harrison scattò diverse foto del massacro, anche se non vi è alcuna prova che confermi la loro testimonianza.
Harrison rimase sconvolto da tale accusa.[8] Varie inchieste hanno portato alla conclusione che all'epoca non vi era alcuna persona di nome "Harrison" presente nella zona del massacro, e che il nome era uno pseudonimo oppure un'affermazione falsa. Il Museo di Sinchon possiede una foto dell'uomo, il presunto Harrison, al quale è stato attribuito il nome completo di "Harrison D. Maddon". La fotografia ritrae un uomo alto posto di spalle davanti a sinistra di una ghirlanda con sopra una bandiera dell'ONU, con la faccia non visibile e con un berretto tenuto in mano dietro la schiena, ed un altro oggetto indistinto visibile subito di fronte all'uomo.[9][10]
Secondo Dong-Choon Kim, un ex commissario della Commissione della verità e della riconciliazione della Corea del Sud, il massacro di Sinchon fu perpetrato dalla "polizia di sicurezza e da gruppi giovanili di destra." Sunghoon Han afferma che le "unità di destra della sicurezza" furono responsabili per le uccisioni.
Nel 1989, il giornalista del Chicago Tribune Uli Schmitzer scrisse:
(EN)
«If any truth about massacres in Chichon (Sinchon) ever existed, the evidence has long ago been obscured. The town, 70 miles [110 km] south of the North Korean capital, Pyongyang, has been turned into a national shrine by a ruthless propaganda machine that has fueled anti-American passions for 36 years in support of an institutionalized, regimented communist regime.[11]»
(IT)
«Se fosse mai esistita qualche verità sui massacri a Chichon (Sinchon), le prove sarebbero state oscurate da molto tempo. La cittadina, a 70 miglia [110 chilometri] a sud della capitale nordcoreana, Pyongyang, è stata trasformata in un santuario nazionale da una spietata macchina di propaganda che ha alimentato le passioni anti-americane per 36 anni a sostegno di un regime comunista istituzionalizzato e irreggimentato.»
Nel libro War and Television, l'autore Bruce Cummings afferma:
(EN)
«The major part of the Sinch’on massacres were carried out by Korean Christians who had fled the Sinch’on area for the South. In my opinion, If any Americans were present they were probably KMAG [Korean Military Advisory Group] personnel, who witnessed many South Korean atrocities against civilians; the Koreans I spoke with were adamant that Americans had carried out the massacres, but it is also true that Koreans do not like to admit that Koreans could do such things, unless they are following American or (in the colonial period) Japanese orders.[12][13]»
(IT)
«La maggior parte dei massacri di Sinch'on furono compiuti da cristiani coreani che erano fuggiti dalla zona di Sinch'on per il sud. A mio avviso, se fossero stati presenti gli americani, sarebbero stati probabilmente tra il personale del KMAG [Korean Military Advisory Group], che ha assistito a molte atrocità da parte della Corea del Sud contro i civili; i coreani con cui ho parlato erano fermamente convinti che gli americani avessero compiuto i massacri, ma è anche vero che ai coreani non piaceva ammettere che gli stessi coreani avrebbero potuto fare quelle cose, a meno che non abbiano seguano gli ordini americani o giapponesi (nel periodo coloniale).»
Rappresentazione nei media
Il romanzo The Guest dello scrittore sudcoreano Hwang Sok-yong, basato sulle interviste con un pastore cristiano coreano, si riferisce al massacro di Sinchon[14]
^(EN) Han Sunghoon, The Ongoing Korean War at the Sinch'ŏn Museum in North Korea (PDF), in Cross-Currents: East Asian History and Culture Review, n. 14, pp. 152–177. URL consultato il 9 gennaio 2019 (archiviato dall'url originale l'11 dicembre 2015).