La canzone libera è una forma metrica italiana che è caratterizzata da stanze ineguali (nel numero e nella disposizione dei versi) e da una varia combinazione di endecasillabi e settenari. Le rime sono libere, ossia non vi è uno schema fisso.[1]
Una prima attestazione di questa forma metrica la si trova in Alessandro Guidi, ma è stata ampiamente impiegata da Giacomo Leopardi che ne ha dato gli esempi più importanti.[2]
Alessandro Guidi è considerato l'ideatore di questa forma metrica [3]: le sue canzoni sono anche dette a selva[4]. Di seguito si riportano tre stanze della canzoneAgli Arcadi di Roma (rispettivamente i vv. 27-56):
«Là siedon l'orme dell'augusto Ponte,
Ove stridean le ruote
Delle spoglie dell'Asia onuste e gravi;
E là pender soleano insegne e rostri
Di bellicose trionfate Navi.
Quegli è il Tarpeo superbo,
Che tanti in seno accolse
Cinti di fama Cavalieri egregi,
Per cui tanto sovente
Incatenati i Regi
De' Parti, e dell'Egitto
Udiro il tuono del Romano editto.
Mirate là la formidabil ombra
Dell'eccelsa di Tito immensa mole,
Quant'aria ancor di sue ruine ingombra!
Quando apparir' le sue mirabil' mura,
Quasi l'età feroci
Si sgomentaro di recarle offesa,
E guidaro da i Barbari remoti
L'ira e il ferro de' Goti
Alla fatale impresa;
Ed or vedete i gloriosi avanzi
Come, sdegnosi dell'ingiurie antiche,
Stan minacciando le stagion' nemiche.
Quel, che v'addito, è di Quirino il Colle,
Ove sedean pensosi i Duci alteri,
E dentro a i lor pensieri
Fabbricavano i freni,
Ed i servili affanni
A i duri Daci, a i tumidi Britanni.»
Dai versi citati si può vedere che le stanze differiscono in quanto a numero di versi (le prime due hanno 12 versi, la terza 6), nella disposizione dei versi (ad esempio nella prima stanza citata i primi tre versi sono un endecasillabo, un settenario e un endecasillabo; nella seconda stanza i primi tre versi sono endecasillabi; nella terza si hanno due endecasillabi e un settenario), nelle rime.
Giacomo Leopardi
La canzone libera leopardiana, detta anche canzone leopardiana, è un tipo di canzone portata a fama imperitura da Leopardi.
Leopardi inizia ad avvicinarsi alla canzone libera in All'Italia e Sopra il monumento di Dante in cui alterna schemi differenti: uno schema viene utilizzato per le stanze dispari e uno per le pari con un uguale numero di versi.
Nel Bruto minore (1824) aumentano le rime irrelate fino all'Ultimo canto di Saffo (1822) dove le stanze sono composte da diciotto versi e presentano sedici endecasillabi irrelati e una combinatio di settenario più endecasillabo a rima baciata.
Il punto d'arrivo della canzone leopardiana sarà A Silvia (1828) dove solamente l'ultimo verso settenario di ogni stanza è legato a un verso interno che ha posizione variabile. In generale i Canti pisano-recanatesi, o Grandi Idilli, scritti tra il 1828 e il 1830, rappresentano l'apice della canzone libera.
Vincenzo Monti
Una ripresa della canzone libera si ha nella canzone monostrofica Pel giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler,[5] costituita da endecasillabi e settenari liberamente disposti e rimati:
«Donna, dell'alma mia parte più cara,
perché muta in pensoso atto mi guati
e di segrete stille
rugiadose si fan le tue pupille?
Di quel silenzio, di quel pianto intendo,
o mia diletta, la cagion. L'eccesso
dei miei mali ti toglie
la favella, e discioglie
in lagrime furtive il tuo dolore.
Ma datti pace, e il core
ad un pensier solleva
di me più degno e della forte insieme
anima tua. La stella
del viver mio s'appressa
al suo tramonto: ma sperar ti giovi,
che tutto io non morrò: pensa che un nome
non oscuro io ti lascio, e tal che un giorno
fra le italiche donne
ti fia bel vanto il dire: Io fui l'amore
del cantor di Bassville,
del cantor che di care itale note
vestì l'ira d'Achille,
Soave rimembranza ancor ti fia,
che ogni spirto gentile
ai miei casi compianse (e fra l'Insùbri
quale è lo spirto che gentil non sia?).
Ma con ciò tutto nella mente poni,
che cerca un lungo sofferir chi cerca
lungo corso di vita. Oh mia Teresa,
e tu del pari sventurata e cara
mia figlia! Oh voi, che sole d'alcun dolce
temprate il molto amaro
di mia trista esistenza, egli andrà poco
che nell'eterno sonno, lagrimando,
gli occhi miei chiuderete! Ma sia breve
per mia cagione il lagrimar: ché nulla,
fuor che il vostro dolor, fia che mi gravi
nel partirmi da questo,
troppo ai buoni funesto,
mortal soggiorno, in cui
così corte le gioie e così lunghe
vivon le pene: ove per dura prova
già non è bello il rimaner, ma bello
l`uscirne e far presto tragitto a quello
dei ben vissuti a cui sospiro. E quivi
di te memore, e fatto
cigno immortal (ché dei poeti in cielo
l'arte è pregio e non colpa) il tuo fedele,
adorata mia donna,
t'aspetterà cantando,
finché tu giunga, le tue lodi; e molto
de' tuoi cari costumi
parlerò co' Celesti, e dirò quanta
fu verso il miserando tuo consorte
la tua pietade; e l'anime beate,
di tua virtude innamorate, a Dio
pregheranno che lieti e ognor sereni
sieno i tuoi giorni, e quelli
dei dolci amici che ne fan corona:
principalmente i tuoi, mio generoso
ospite amato, che verace fede
ne fai del detto antico,
che ritrova un tesoro
chi ritrova un amico.»
Per Gianfranco Contini questo metro Monti lo derivava da Leopardi: «Non sembra che al suo libero componimento il Monti abbia potuto trovare altro precedente serio (tolte dunque le canzoni del secentista Guidi) che il canto leopardiano, pure più astretto a norme interne, Alla sua donna, uscito nell'edizione del 1824».[6]
Note
^Cfr. F. Bausi-M. Martelli, La metrica italiana, Firenze, Le Lettere, 1993, p. 187; P. G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 343.
^P. G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 343.
^Cfr. F. Bausi-M. Martelli, La metrica italiana, Firenze, Le Lettere, 1993, p. 187
^Cfr. F. Bausi-M. Martelli, La metrica italiana, Firenze, Le Lettere, 1993, p. 187; F. De Rosa-G. Sangirardi, Introduzione alla metrica italiana, Firenze, Sansoni, 2000, p. 202.
^Mentre G. Contini, Letteratura italiana del Risorgimento, Milano, Rizzoli, 2011, p. 70 la ritiene una strofe unica di canzone mista liberamente di endecasillabi e settenari, Flora nel suo commento a V. Monti, Poesie, Firenze, Vallecchi, 1928, p. 110 la definisce un'ode.
^G. Contini, Letteratura italiana del Risorgimento, Milano, Rizzoli, 2011, p. 70. Da tener presente che la poesia del Monti è del 1826, e fu composta nel periodo compreso tra l'8 settembre e la prima metà d'ottobre. Certamente era stata completata entro il 15, quando ricorre il giorno in cui si ricorda santa Teresa d'Avila, e la moglie del poeta festeggiava dunque l'onomastico; A. Bertoldi, Pel giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler, in V. Monti, Poesie, Firenze, Sansoni, 1957, p. 137
Bibliografia
F. Bausi-M. Martelli, La metrica italiana, Firenze, Le Lettere, 1993.
P. G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1994.
F. De Rosa-G. Sangirardi, Introduzione alla metrica italiana, Firenze, Sansoni, 2000.
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